CAPITOLO IV

Galiani e la legittimazione degli «alzamenti» delle monete

1. Premessa

Nelle ultime righe dell'Appendice alle Osservazioni Pompeo Neri accennava ad «un trattato intitolato della Moneta, libri cinque» che lo aveva particolarmente colpito, perché in esso venivano difesi, «contro l'opinione ormai comune i sentimenti del Melon sopra l'alzamento arbitrario dei prezzi e delle monete». Le idee di questo scrittore, affermava lo studioso fiorentino, contraddicevano le affermazioni di «Dutot che aveva confutato, il Melon, contro l'Abate di S. Pietro, l'autore dello Spirito delle Leggi e altri scrittori più antichi, come Locke, Davanzati e altri che hanno scritto per l'opinione contraria agli alzamenti1 [Pompeo Neri, Appendice alle Osservazioni..., vol. VI, cit., pp. 366-367.]».

L'opera in questione, uscita anonima alcuni mesi prima a Napoli, frutto del «portentoso e stupendo talento» e del «grande ingegno2 [In questo modo si esprimeva Bartolomeo Intieri che definì le pagine del Della moneta «portentose e stupende» (citazioni tratte da F. Nicolini, Intorno a Ferdinando Galiani, a proposito di una pubblicazione recente, in «Giornale storico della letteratura italiana», fasc. LII, Firenze, Le Monnier, 1908).]» di un giovane appena ventitreenne, rappresenta, secondo il giudizio di Franco Venturi (e con lui concorda la maggior parte degli storici dell'economica) «il capolavoro uscito dalla discussione sulle monete a metà del secolo3 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 490.]»; tale capolavoro, ammonisce lo storico in questione, è un «incantato labirinto» attraverso il quale è possibile orientarsi solo con la «mappa» rappresentata da «tutta la discussione monetaria che si andava svolgendo attorno a lui, sui problemi del regno napoletano e dell'Italia che stava uscendo dalla guerra di successione austriaca4 [Quella che Venturi definisce una «mappa», ovvero la sua ricostruzione, per molti versi apprezzabile, della «discussione monetaria» riesce, secondo il nostro avviso, a fornire un orientamento soltanto parziale perché anch'essa è un «labirinto», forse più «incantato» del trattato galianeo (Settecento riformatore, cit., p. 491).]».

L'attività di Galiani economista (dalla dissertazione giovanile sulla moneta nell'età della guerra di Troia fino alle «consulte» a re Ferdinando) si svolge lungo un arco di tempo abbastanza lungo, ed è caratterizzata da un «estroverso rapporto con gli avvenimenti quotidiani, con i circoli intellettuali e politici, con l'approvazione dei lettori5 [A. Caracciolo, Galiani economista fra il pensiero del suo tempo e la critica recente, in Accademia nazionale dei Lincei, Convegno italo-francese sul tema: Ferdinando Galiani, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1972, p. 231.]».

La storiografia economica ha incontrato perciò molte difficoltà nel collocare la sua figura in una corrente di pensiero predefinita; egli, infatti, non può essere classificato né come un mercantilista, né come un fisiocrate, né come un liberista, ma è stato, secondo il giudizio di Luigi Einaudi, «critico mordace, a volta a volta di tutti» perché il suo lavoro di economista è caratterizzato da una noncuranza «verso il sistematico generale e verso le scuole6 [L. Einaudi. Galiani Economista, in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche. Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1953, p. 270.]»; amava argomentare «per casi e per contrasti», seminare idee senza fermarsi su nessuna e senza raccoglierle in un sistema.

Nei suoi scritti «insiste continuamente sulla relatività dei precetti di politica economica, evitando l'uso di massime generali7 [A. Caracciolo, Galiani economista fra il ..., cit., p. 233.]», ed in alcune occasioni il riferimento a casi specifici (come la situazione della Francia nei Dialogues o quella del Regno di Napoli nelle «consulte») è dichiarato esplicitamente.

Motivi per i quali Schumpeter ha affermato che «Galiani fu l'unico economista del Settecento che insistesse sempre sulla variabilità dell'uomo e sulla relatività, rispetto al tempo e al luogo, di tutte le politiche; l'unico completamente libero dalla paralizzante credenza - che allora serpeggiava nella vita intellettuale europea - in princìpi pratici aventi validità universale; colui che vide che una politica, ch'era razionale in Francia in un certo tempo, poteva essere del tutto irrazionale, nello stesso tempo, a Napoli; che ebbe il coraggio di dire "Je ne suis pour rien... je suis pour qu'on ne déraisonne pas" (Dialogues sur le commerce des blés, 1769, primo dialogo); e che giustamente disprezzava tutti i tipi di dottrinari politici, compresi i fisiocrati8 [J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi ..., cit., p. 356.]».

A nostro avviso questi giudizi, peraltro molto autorevoli, restano validi solo alla luce di un esame che comprenda tutti gli scritti di Galiani, ed in particolare dei Dialogues, perché in riferimento solo al Della Moneta, come vedremo, essi non possono essere assolutamente accettati.

2. Gli scritti monetari giovanili

Gli studi monetari avevano interessato subito il Nostro Autore9 [L'iniziazione del giovane Ferdinando agli studi economici si deve soprattutto al marchese Carlo Rinuccini ed a Bartolomeo Intieri, entrambi toscani ed amici di Celestino Galiani (vedi di seguito), al quale fin dalla giovane età era stato affidato il nipote Ferdinando affinché ponesse, nell'educarlo, «la stessa cura meticolosa che l'artista nell'attendere al suo capolavoro». Una parte importante nella formazione del giovane fu ricoperta da Celestino Orlandi (vedi di seguito) al quale venne affidato insieme al fratello Bernardo quando, dal 1737 al 1741 Celestino fu impegnato a Roma per trattare il Concordato tra il regno di Napoli e la Santa Sede. Tornato a Napoli, Ferdinando venne introdotto in un ambiente in cui si discorreva di «politica, di legislazione di commercio e di economia non solo senza spropositare, ma raddrizzando e correggendo tutto un fiume di spropositi messi in circolazione a proposito della guerra per la successione austriaca, della svalutazione della moneta, dell'accresciuto costo della vita [corsivo nostro] e di tante altre cose». Da Intieri e Rinuccini «gli furono additate le prime opere di economia che egli leggesse (il Davanzati, lo Scaruffi, l'abate di Saint-Pierre, il Melun, il Locke, ecc.) Da loro (o, per essere più precisi dall'Intieri) gli fu donato l'aureo per quanto allora sconosciuto trattato di Antonio Serra (che al Galiani appunto deve la sua postuma reputazione), e dalla loro bocca egli imparò che quell'oscuro e involuto calabrese era stato il vero e grande fondatore dell'economia politica». Gli scritti giovanili di Galiani, anche quelli anteriori al Della moneta, oltre a rivelare una «preparazione filosofica accuratissima», mostrano «con quanto amore avesse coltivata fin dalla sua adolescenza storia ecclesiastica e profana, antica e moderna». Ferdinando non deluse le attese dei suoi precettori, a sedici anni era già «autore di buoni versi e di migliori dissertazioni filosofiche, economiche ed erudite ed era vantato da tutta Napoli quale miracolo di precocità, versatilità, acume e spirito. (F. Nicolini, La puerizia e l'adolescenza dell'abate Galiani (1735-1745) Notizie, lettere, versi, documenti, in «Archivio storico per le province napoletane», Nuova serie-anno IV, Napoli, Pierro, 1918, pp. 112, 114, 115, 116, 117; F. Nicolini, Un grande educatore italiano Celestino Galiani, Napoli, Giannini, 1951, pp. 65, 66, 95, 106, 116, 120, 122).], che all'età di sedici anni aveva iniziato la versione italiana del trattato monetario di Locke10 [John Locke, Some considerations of the consequences of lowering and raising the value of money, in a letter sent to a Member of Parliament in the year 1691, Londra, 1692; questa traduzione, iniziata dal 1744, fu molto importante perché Galiani «era andato scrivendo intorno a questo una serie di note, le quali poi, accresciute, coordinate e disposte a forma di libro, che un capolavoro di chiarezza, di ritmo e di proporzione, divennero appunto la Moneta» (F. Nicolini, La puerizia e l'adolescenza ..., cit., p. 117).]; essa non venne mai portata a termine per la difficoltà di tradurre un'opera caratterizzata da un disordine e da una «continuità senza rifiato» che avrebbe recato «disgusto ai lettori», ma soprattutto per la sostanziale difformità delle sue idee rispetto a quelle del filosofo inglese.

Il saggio giovanile nel quale vengono anticipati alcuni concetti che verranno successivamente sviluppati nel Della moneta è la dissertazione accademica Sullo stato della moneta ai tempi della guerra troiana per quanto ritraesi dal poema di Omero11 [Sullo stato della moneta ai tempi della guerra troiana, riprodotta in Appendice a Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., da p. 351 a p. 379.].

In questo saggio scritto nel 1748 Galiani sostiene, preannunciando così alcune idee fondamentali, che costituiranno il fondamento della teoria del valore sviluppata nel primo libro del Della moneta, che i metalli preziosi, per poter essere utilizzati come moneta «è necessario che di essi vi sia una determinata quantità, cioè né grande scarsezza, né grande abbondanza». Queste idee, che costituiscono i fondamenti sui quali viene sviluppata le teoria del valore naturale della moneta, permettono a Galiani di rifiutare, già da queste pagine giovanili, le teorie contrattualistiche sull'origine dello strumento monetario.

Dopo aver dimostrato che gli uomini utilizzarono anche monete non coniate, enumera le qualità più importanti dei metalli preziosi: la prima, che egli chiama «di spezie o mercanzie», è quella per la quale i metalli vengono considerati per il loro peso e la loro fattura; se considerati secondo questa qualità, i metalli preziosi con i quali vengono coniate le monete, possono essere assimilati a tutte le altre merci; mentre il valore intrinseco, ovvero il peso e la bontà dei metalli preziosi, da solo determina la seconda qualità, cioè «quella di servire come pegno alla società umana». Il valore delle monete d'oro o d'argento, pertanto, non scaturisce dal conio apposto dalla pubblica autorità, ma soltanto dalla «comune opinione degli uomini». Questa identità di sentimenti è tale che sempre si trova «chi, per avere quella istessa moneta, dia l'equivalente a quel che si è dato da colui che tien la moneta12 [Sullo stato della moneta ..., cit., p. 373. La teoria monetaria sviluppata in questo saggio giovanile ha molti punti di contatto con quella di Baldo degli Ubaldi. Il giurista perugino aveva infatti sottolineato che ciò che definisce la moneta non è soltanto la sua materialità («bonitas pene materiam») ma soprattutto il valore che il mercato ad essa conferisce («bonitas pene usum»); valore che non è dato dalla moneta in sé e per sé, in quanto tale, vale a dire metallo coniato, ma dai vantaggi che derivano dal possederla, dalle utilitates che essa assicura, convertibili in utilità di beni e servigi (O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2303). Va rilevato, come giustamente hanno fatto F. Nicolini (La puerizia e l'adolescenza ..., cit., p.111-113) e F. Diaz (Introduzione a Illuministi italiani, tomo VI, Opere di Ferdinando Galiani, a cura di F. Diaz e B. Guerci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. XIII) che Galiani fece la conoscenza di giuristi come Giuseppe Pasquale Cirillo «assiduissimi» frequentatori dello zio Celestino e «studiò diritto civile e canonico presso Marcello Cusano», cioè che la cultura giuridica, dominante a quei tempi, fu determinate per la formazione del giovane abate.]».

3. Galiani fu veramente l'autore del Della moneta?

Due questioni meritano di essere risolte prima di iniziare l'esame del Della moneta: i dubbi sulla paternità e l'incertezza della data di pubblicazione. I primi furono sollevati, in tempi ormai lontani, da Giuseppe Pecchio, il quale sostenne che «questo libro, pieno di princìpi politici e di osservazioni filosofiche, che solo possono essere il frutto di una lunga esperienza, abbia ad attribuirsi al giovine Galiani, ovvero non abbia ad essere considerato come l'espositore delle opinioni di due uomini maturi di età e di senno, il marchese Rinuccini, e Bartolomeo Intieri, amendue toscani, che il giovane scrittore usava frequentare». Lo storico in questione, conclude affermando che «un'opera, come quella di Galiani, ripiena di profonde osservazioni sulla storia, sulla natura umana, e insieme di critiche sui governi, sia stata pensata in tale età, è per me un'impossibile morale. Non potendola adunque credere un'opera inspirata, la credo dettata da due provetti studiosi di politica e di leggi. Questo libro non è scritto con quella leggierezza e leggiadria con cui l'abbate scrisse molti anni appresso i suoi celebri dialoghi sul commercio dei grani13 [G. Pecchio, Storia dell'economia pubblica in Italia, ossia epilogo critico degli economisti italiani, terza edizione, Lugano, Tipografia della Svizzera italiana, 1849, p. 80.]».

Un'analisi completa dei manoscritti e della corrispondenza, parte della quale è stata pubblicata da Fausto Nicolini14 [F. Nicolini, Intorno a Ferdinando Galiani ..., cit.], ha consentito di risolvere i dubbi sulla paternità a favore di Galiani. Tuttavia il fatto che lo stesso Intieri, in alcune lettere dirette sia a Celestino Galiani, che al medesimo Ferdinando, si domandasse chi fosse l'autore di quest'opera, che stava per essere pubblicata anonima e della quale egli parlava con grandissima ammirazione, non deve trarre in inganno.

Non si può negare, infatti, che da Intieri e da Rinuccini «Galiani fu guidato nel raccoglier materiali per il suo classico trattato della Moneta, che piace ancora a taluni presentar come un miracolo d'ingegno o un'improvvisazione ben riuscita, laddove a esso (come del resto, anche alle altre due sue opere capitali di politica) egli fece precedere una lunga preparazione che non avrebbe potuto essere più accurata e ponderata15 [F. Nicolini, La puerizia e l'adolescenza ..., cit., p. 117; interessante è anche il giudizio espresso da un suo illustre contemporaneo, Bernardo Tanucci, il quale, in una lettera diretta al suo agente Francesco Nefetti, a Firenze, affermava che «si legga poco o poco si mediti, ove l'opera di Gagliani sbalordisce e trattiene quelli che si erano già impegnati col pubblico di scrivere su quella stessa materia. Qui quel libro è stato trovato pieno di paralogismi avanzati, di disordini e di roba altrui, e molto tra questa Machiavelli, usato sotto altre vesti e ad altri propositi» (Bernardo Tanucci, Epistolario, a cura di R. P. Coppini e R. Nieri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, lettera 633 [8 febbraio 1752], vol. II., p.740).]».

Il dubbio relativo alla data di pubblicazione nasce dal fatto che il frontespizio della prima edizione reca la data del 1750, mentre da un attento esame degli scambi epistolari prima citati, e della licenza di stampa, reperita da Nicolini, si deduce che il libro venne pubblicato soltanto nell'estate del 175116 [A questo proposito vedi anche L. Einaudi, Di alcune bibliografie economiche, in Saggi bibliografici ..., cit., p. 56.]. Dalle lettere scaturisce un altro aspetto molto sorprendente di quest'opera: la rapidità con cui si divulgò, oltre che nel Regno di Napoli, in tutti gli Stati della Penisola.

Ad esempio, in una lettera di Giovanni Bottari a Celestino Galiani, pubblicata da Fausto Nicolini, si legge che a Roma era già conosciuta agli inizi dell'ottobre del 1751. Ciò fu dovuto in primo luogo alla posizione di grande influenza ricoperta da Celestino Galiani17 [Celestino Galiani, che fu abate e poi generale dei Celestini; professore di teologia morale, dogmatica, e di storia ecclesiastica a Roma. Nel 1732 fu nominato cappellano maggiore del Regno di Napoli, carica che attribuiva funzioni sia relative al culto sia alla pubblica istruzione. Uomo di cultura e di spirito, fu al centro della vita intellettuale napoletana sotto il Regno di Carlo II e fu in rapporto di amicizia con Bartolomeo Intieri, Alessandro Rinuccini e, fuori Napoli, con gli ambienti più illuminati e aperti della curia romana (citazione biografica tratta da Illuministi italiani, Tomo VI, cit., p. 269, nota a piè di pagina).], determinante per la fortuna del trattato del giovane nipote ed alle amicizie dello stesso Ferdinando nella capitale (ad esempio quella con Celstino Orlandi).

L'Avviso premesso alla edizione del 1780, curata dallo stesso Galiani, è la fonte migliore per ricostruire la genesi "ufficiale" del Della moneta; nelle pagine introduttive l'autore indica, seppur sommariamente, quali furono i motivi principali che lo indussero a scrivere il trattato che lo rese famoso.

In primo luogo, la situazione di grave crisi economica e monetaria all'indomani della guerra di successione austriaca, allorquando «pareva che mancasse il denaro: si erano alterati i cambi; il prezzo di ogni cosa era incarito18 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 9.]». Egli, nello stesso Avviso, si vantava di esser stato uno dei primi ad aver dato una spiegazione economica di questi fenomeni, e, pur riconoscendo che altri lo avevano preceduto (Carlantonio Broggia e Troiano Spinelli), afferma che il suo libro era stato scritto senza «aiuto de' libri» e che «a lui furono più d'ogni libro giovevolissimi i discorsi per molti anni intesi di due uomini sapientitssimi e profondi in questa scienza come in molte altre, che allora vivevano in Napoli ed egli frequentava. Furono questi il marchese Alessandro Rinuccini e l'abate Bartolomeo Intieri19 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., pp. 6-7.]».

Nel Proemio all'edizione del 1751, vengono citati insieme a Broggia e a Spinelli, Melon, «uomo d'ingegno grandissimo e d'animo veramente onesto e virtuoso», il quale era «meno d'ogni altro seguíto, e letto solo per essere confutato20 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 13.]», e Locke, che però aveva trattato i temi monetari senza sufficiente «metodo ed ordine».

Pur riconoscendo che da questi scrittori aveva «tolte varie notizie», Galiani precisava subito che «forse molte, meditando, avrò io trovate, che sembreranno prese da altri, sebbene così non sia. Ché se nell'opera non mi trattengo a citare alcuno, egli è perché le cose, che tratto, voglio che abbiano il loro vigore dalla ragione e, non dall'autorità21 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 14.]». Quest'ultima affermazione sembra inserita allo scopo di sottolineare il carattere originale delle proprie teorie, quasi a voler escludere ogni critica futura in questa direzione.

Contraddittorio infine ci pare il suo atteggiamento di disapprovazione verso le ricerche erudite e verso l'operato di uomini colti, che «poco a se, niente agli altri potevano d'utilità arrecare22 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 12.]». Citazioni di scrittori classici ed avvenimenti della storia antica, frutto di lunghi anni di studi eruditi, sono infatti parte integrante di alcuni capitoli del Della moneta; anch'egli, «legato alle preoccupazioni storiche della sua generazione23 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 491.]», non rinuncia ad analizzare il passato economico dell'Europa e del'Italia per comprendere in modo più profondo i problemi del suo tempo.

4. Aspetti metodologici del trattato monetario galianeo

Prima di iniziare l'esame dei problemi monetari affrontati nel Della moneta riteniamo necessario premettere alcune precisazioni di carattere metodologico. L'intero trattato è costellato di riferimenti all'esistenza di leggi naturali che regolano il corso di fenomeni economici. Queste leggi hanno una validità universale e corrispondono alle leggi fisiche della gravità e dei fluidi.

Come le leggi fisiche, le leggi economiche non possono mai essere violate; sia il comportamento del singolo individuo che la politica economica del principe sono limitate da questi princìpi generali. A dimostrazione di ciò Galiani utilizza l'esempio di un paese di religione maomettana che improvvisamente si converte interamente alla fede cristiana, per la quale, al contrario della maomettana, è concesso bere vino. A causa della scarsa quantità disponibile, e dell'aumento improvviso della domanda, il prezzo del vino aumenterà in modo sensibile. I mercanti accresceranno le importazioni di vino e nuovi produttori saranno attratti in quel paese, finché i profitti non raggiungeranno un livello di equilibrio.

Da questo esempio derivano due «grandi conseguenze»: primo, «che non bisogna de' primi movimenti in alcuna cosa tener conto, ma degli stati permanenti e fissi, ed in questo si trova sempre l'ordine e l'ugualità; come se, in un vaso d'acqua si fa alcuna mutazione, dopo un confuso e irregolare e irregolare sbattimento siegue il regolare livello24 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 55.]». Secondo, «che non si può dare in natura un accidente, che porti le cose ad estremità infinità; ma una certa gravità morale, che è in tutto, le ritrae sempre dalla retta linea infinità, torcendole in un circolo, perpetuo sì, ma finito».

Questi due princìpi, aventi la stessa validità delle leggi fisiche, vengono applicati alla spiegazioni dei fenomeni monetari perché «con tanta esattezza corrispondono le leggi del commercio a quella della gravità e de' fluidi, che niente più. La gravità nella fisica è il desiderio di guadagnare o sia di viver felici nell'uomo: e ciò posto tutte le leggi fisiche de' corpi si possono perfettamente, da chi sa farlo, nel morale di nostra vita verificate25 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., pp. 55-56. Queste idee sono le stesse enunciate da Celestino Galiani a Giovanni Bottari quando teorizzava l'estensione delle leggi naturali newtoniane ad ogni aspetto della realtà. La funzione della scienza moderna, le notevoli suggestioni della «Newtonian revolution», si avvertono comunque in quasi tutte le opere economiche degli studiosi degli anni cinquanta. Pompeo Neri, ad esempio, non esitava a scrivere, nelle sue celebri Osservazioni che «la misura del valore è regolata dalle istesse leggi naturali che regolano la misura della lunghezza, dell'estensione cubica, della gravità» (V. Ferrone, Scienza, natura, religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Jovene, 1982, p. 579, nota a piè di pagina). Va rilevato che già Montanari, per spiegare la natura delle leggi economiche, utilizzò gli esempi tratti dai fenomeni fisici, ed è «proprio negli in cui andava compiendo le esperienze idrostatiche (1663) che egli si servì del modello meccanico dei vasi comunicanti per comprendere i fenomeni monetari dei quali trattò ex professo nel periodo più fervido dell'attività di scienziato della natura» (O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 2, tomo secondo, p. 1554).]».

Il metodo di verificare «le leggi fisiche de' corpi» nel «morale di nostra vita» era stato sperimentato con successo da una élite di studiosi a lui molto vicini (Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri, Celestino Orlandi e Giuseppe Orlandi26 [Celestino Orlandi, legato a Celestino Galiani, a Intieri, a Rinuccini, fu amico di Genovesi, il quale oltre a credere che Intieri pensasse a lui come titolare della cattedra di «commercio e di meccanica» che lo stesso Intieri aveva deciso di istituire, lo definisce «uomo di grande e bella mente, di amabile, costume, e studiosissimo di queste scienze» (commercio e meccanica, appunto). Appartenente all'ordine dei Celestini (di cui divenne Procuratore generale) resse la diocesi di Molfetta dal 1754 al '75. Studioso di matematica, si interessò anche di problemi agricoli: nelle lettere a Galiani da Roma lo vediamo richiedere libri di agricoltura. Giuseppe Orlandi studiò matematica e filosofia nell'abbazia di Sulmona governata da Celestino Galiani e poi teologia a Roma a S. Eusebio, dove restò probabilmente in contatto col futuro cappellano maggiore, che si affrettò a fondare per lui la nuova cattedra di fisica sperimentale. Prima di questo importantissimo incarico era stato «lector thologiæ et juris canonici in sua religione», ma a Roma doveva, col Galiani e soprattutto coi padri Jaquier e Le Seur editori e commentatori dei Principia Matematica, essersi formato la sua preparazione newtoniana, di cui il suo insegnamento costituisce l'affermazione definitiva e ormai indiscussa a Napoli. Secondo i biografi fu caro «allo stesso marchese Tanucci, uomo di stato che lo consultò in varie occasioni» e certamente a Bartolomeo Intieri, al quale presentò Genovesi e che però non a lui, ma al fratello avrebbe pensato in un primo tempo per la cattedra di commercio (notizie biografiche tratte da E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, Venezia, Alvisopoli, 1836, volume terzo, p. 427; P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972, pp. 830-831, nota a piè di pagina; Illuministi italiani, cit., p. 831 nota a piè di pagina; V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., pp. 609-610, nota a piè di pagina).]). Costoro portarono a «felice compimento quello spostamento dalle scienze naturali alle scienze sociali che era stato teorizzato sin dal 1730 da Celestino Galiani27 [V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., p. 579.]».

Per questo se si volesse comprendere interamente l'«impianto filosofico del Della moneta, bisognerebbe tornare ad alcune pagine della Scienza morale di Celestino Galiani. L'utilitarismo, il razionalismo scientifico, l'empirismo fenomenico, il rifiuto della morale evangelica a favore di un'analisi spregiudicata delle passioni umane, che trovano una compiuta espressione nel Della moneta, erano infatti già stati sviluppati nell'inedito trattato di Celestino28 [V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., p. 580.]».

Partendo da queste premesse teoriche, che rappresentavano un importante passo nella evoluzione compiuta dalle ricerche nel campo dell'economia, egli arrivava a concepire le variabili economiche attraverso un calcolo preciso, senza alcuna concessione alla «creatività umana, alla singolarità e problematicità del rapporto uomo-natura» ed alle grida del popolo che egli definisce per la sua ignoranza un «grande inimico delle buone operazioni del principe».

Il primato delle leggi economiche, cioè «di leggi universali implacabili nella loro fattualità29 [V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., p. 582.]» stabilito nel Della moneta segna il distacco dagli intenti riformatori di Celestino Galiani e di Bartolomeo Intieri, per i quali il metodo scientifico delle scienze fisiche doveva servire «a modificare l'ambiente e a cambiare le abitudini».

5. L'analisi del valore in termini di "utilità" e di "rarità"

Il primo libro (De' metalli) del trattato viene dedicato alla illustrazione delle «qualità della moneta, o sia di que' metalli che le nazioni culte come un equivalente d'ogni altra cosa usano di prendere e dare30 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 19.]». Egli precisa subito che, se quasi dappertutto i metalli preziosi venivano usati come moneta, non bisognava generalizzare il fenomeno, perché esistevano delle eccezioni, ovvero «non mancano nazioni, che non di metalli, ma si servono o di frutta, come mandorle amare in Cambaia, di cacao e di maitz in qualche luogo d'America; o di sale, come è nell'Abissinia; o di chiocciole marine31 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 20.]».

L'utilizzo di tali precisazioni serve a sottolineare, così come aveva già fatto nella dissertazione Sullo stato della moneta ai tempi della guerra troiana, che nella moneta «quello che conta non è la materia con cui essa è formata, ma che sia stimata tale dalla comune opinione32 [O. Nuccio, Ferdinando Galiani, Appendice al vol. VI, parte moderna, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], ristampa anastatica, Roma, Bizzarri, 1967, p. XIII.]». Anch'egli, come Montanari, sostiene che la scelta della sostanza che costituisce il mezzo monetario non è determinante; l'importante è che «la materia o la cosa selezionata per adempiere l'ufficio di moneta deve essere accettata all'interno della comunità con universale convinzione del suo ruolo33 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 2, tomo secondo, p. 1567.]».

La grandissima diffusione dell'oro e dell'argento negli usi monetari era dovuta alla stima che di essi avevano la maggior parte degli uomini. Galiani, nonostante l'opinione di coloro i quali affermavano che il «loro pregio sia puramente chimerico ed arbitrario e che derivi da un error popolare, che insieme colla educazione si forma in noi34 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 36.]», cerca di dimostrare che i metalli preziosi «hanno nella loro natura istessa e nella disposizione degli animi umani fisso e stabilito costantemente il loro giusto pregio e valore35 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 37.]».

Tale valore, come quello ogni altra cosa al mondo, è da «principî certi, generali e costanti derivato; che ne il capriccio, né la legge, né il principe e né altra cosa può far violenza a questi principî e al loro effetto36 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 38.]». Nasce a questo punto l'esigenza di conoscere quali siano questi «principî certi, generali e costanti», sopra i quali costruire la teoria del valore.

Per Galiani il valore è «una idea di proporzione tra 'l possesso d'una cosa e quello d'un'altra nel concetto di un uomo37 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 39.]»; questa «relazione tra l'uomo e le cose38 [O. Nuccio, Ferdinando Galiani, Appendice ..., cit., p. XVI.]», attraverso la quale è possibile spiegare i comportamenti degli individui, dipende da due «ragioni»: l'utilità e la rarità.

L'utilità viene definita «l'attitudine che ha una cosa a procurarci la felicità. È l'uomo un composto di passioni che con diseguale forza lo muovono. Il soddisfarle è il piacere. L'acquisto del piacere è la felicità39 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 39.]». Le passioni muovono gli uomini e li spingono ad acquisire i mezzi (le «cose utili») in grado di procurargli la felicità. Le cose utili son quindi quelle che appagano lo stimolo di una passione.

Gli uomini, precisa il giovane abate, non hanno «solamente il desiderio di mangiare, di bere, di dormire»; una volta soddisfatti questi bisogni che potremmo definire essenziali, ne sopraggiungono immediatamente di nuovi «perché l'uomo è così costituito, che appena acquetato che egli ha un desio, un altro ne spunta, che sempre con forza eguale al primo lo stimola40 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 40.]». L'esistenza di una gerarchia di gusti e di bisogni diversa per ogni uomo permette a Galiani di risolvere il paradosso del valore, di spiegare cioè perché «molte cose "utilissime", come l'acqua hanno un valore di scambio basso o nullo, mentre altre cose molto meno "utili" l'hanno elevato41 [J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi ..., p. 365.]».

Attraverso il concetto di utilità egli sviluppa l'aspetto soggettivo della teoria del valore che gli permette di ricondurre il valore delle cose alla intensità ed alla forza dei bisogni che muovono ogni singolo individuo. La teoria viene però ulteriormente sviluppata attraverso il concetto di "bene economico". Soltanto determinati beni hanno un valore economico. Un bene, infatti, per avere un valore economico, oltre ad avere il requisito della utilità deve anche essere raro. Superato il paradosso egli può affermare che «l'aria e l'acqua, che sono elementi utilissimi all'umana vita, non hanno valore alcuno, perché manca loro la rarità; e per contrario un sacchetto d'arena de' lidi del Giappone rara cosa sarebbe, ma, posto che non avesse utilità particolare, non avrebbe valore42 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 39.]».

La teoria viene completata con l'affermazione che dal punto di vista della rarità, definita una relazione tra «la quantità d'una cosa e l'uso che n'è fatto43 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 46.]», i beni si dividono in due categorie: quelli la cui quantità dipende dalla produzione della natura e quelli la cui quantità dipende dal lavoro a partire dalla natura. I beni della seconda categoria prendono il loro valore dal solo lavoro («fatica»); e, «nel calcolar la fatica si dee por mente a tre cose: al numero della gente, al tempo e al diverso prezzo della gente che fatica44 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 47.]».

Gli storici del pensiero economico (Einaudi, Schumpeter, Bousquet45 [G. H. Bousquet, Esquisse d'une histoire de la science économique en Italie. Des origines à Francesco Ferrara, Paris, Rivière, 1960.], solo per citare i più importanti) hanno sottolineato, talvolta con toni entusiastici, i meriti del giovane economista napoletano, indicandolo sia come il precursore delle teorie marginaliste del XIX secolo sia come colui che per primo individuò nel lavoro la misura del valore di scambio.

Schumpeter, ad esempio, dopo aver giustamente ricordato che gli «Italiani, da Davanzati in poi, furono i primi a rendersi conto esplicitamente come il "paradosso del valore" - il paradosso, cioè, che molte cose "utilissime", come l'acqua, hanno un valore di scambio basso o nullo, mentre cose meno "utili", come i diamanti, l'hanno elevato - possa esser risolto e che esso non sbarra la via a una teoria del valore di scambio fondata sul valore d'uso», e che «nel secolo e mezzo dopo Davanzati si potrebbe compilare un lungo elenco di scrittori che avevano assai ben compreso in qual modo l'utilità entri nel processo della formazione dei prezzi», sostiene che Galiani fu «l'economista che, sull'argomento, compì l'analisi più acuta di tutto il Settecento46 [J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi ..., cit., pp. 365-366. Uno dei pochi che ha cercato di ridimensionare i meriti che la storiografia ha unanimemente attribuito al giovane abate, soprattutto in riferimento alla teoria del valore, è stato Pierre Lebrun. Partendo dal presupposto che «une théorie d'un auteur ancien doit être discutée à deux point de vue: celui d'une logique interne du sistème de pensée et celui d'une cohérence avec la société globale à laquelle l'auteur appartient», lo storico francese ha espresso la necessità di chiarire il significato assunto dalle nozioni di utilità e di rarità nel XVIII secolo e nel XIX, cioè di relativizzare queste nozioni al fine «d'en définir le contenu exact et la portée précise, d'y déceler che qu'elles charrient d'idées contemporaines, ce qu'en retour elle exerceront d'influence sur la société ou elles se localisent». Queste premesse di natura metodologica gli permettono di affermare che «la conception de la valeur de Galiani est indiscutablemet psicologique, subjective. Il se place dans une optique adoptée par beaucoup de ses predecesseur et de ses contemporains en remonant jusq'aux scholastiques. Bref, on voit là l'equivalent de ce que nous avons appelé la valeur de satisfation, plus ou moins basée sur une échelle de desirabilité. Cela dit, il est hors question d'attribuer a Galiani la moindre idée de marge, de ce que nous avons décrit comme la valeur de disposition; or, c'est prévisément ces notions qui fondent l'originalité de la révolution marginaliste et de la conception moderne de la valeur»; allo stesso modo sarebbe «illusoire un rapprochement avec Marx et le temp de travail socialement nécessaire». Conclude quindi affermando che la concezione di valore del giovane abate «est la conception de plusieurs de ses contemporaines, ce n'est rien d'autre que l'analyse d'un homme intelligent de 1750, semblable, semblable aux analyses d'autres hommes intelligents de la même époque (Réflexions méthologiques sur l'histoire des théories et des doctrines économiques. La soi-disant modernité de Ferdinando Galiani, in «Studi in onore di Amintore Fanfani», vol. VI, evo contemporaneo, Milano, Giuffré, 1962, pp. 330, 335, 346, 347, 356).]»

Le premesse stabilite per determinare il valore dei beni in generale potevano essere applicate all'analisi del valore dei metalli preziosi, che, quasi universalmente, venivano utilizzati come moneta; afferma Galiani che il loro valore è stabile perché essi «non soggiacciono alla varietà delle raccolte [influenza sulla rarità], altra cagione estrinseca non hanno, onde cangiare la rarità che la moda [influenza sull'utilità], e «per la loro sovrana bellezza non sottopongosi ai capricci di questa né a quella delle varie raccolte; e perciò più d'ogni altro hanno prezzo costante47 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 54.]», richeggiando Fabbrini che aveva parlato di «corpi di meno sensibile variazione».

Anche se la «scoperta di mine più abbondanti, come fu nello scoprirsi dell'America» aveva modificato il valore dei metalli in misura meno che proporzionale in ragione dell'aumentato consumo per il lusso, questi costituivano sempre la materia con il valore meno soggetto a variazioni che la natura metteva a disposizione, essendo la stabilità assoluta «un sogno, una frenesia».

Il giovane economista napoletano dimostra, attraverso un «calcolo aritmetico» basato su dati ricavati per mezzo di stime personali («Questo è il computo che io ho saputo fare e su cui molte cose meditando conosco48 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 61; Bartolomeo Intieri e Celestino Orlandi avevano già applicato con successo la matematica ai problemi finanziari e economici del Regno di Napoli. Il primo ad esempio aveva razionalizzato il gioco del lotto con gran vantaggio dell'erario (P. Zambelli, La formazione filosofica ..., cit., p. 831, nota a piè di pagina).]»), che soltanto una parte del totale dei metalli preziosi era destinata agli usi monetari, e dato che esisteva una «sproporzione sia tra il metallo usato in moneta e quello che no49 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 59.]» gli usi non monetari erano determinanti per il valore dei metalli preziosi che avevano «valore assai più come metalli che come moneta50 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 58.]», ed il loro «valore intrinseco, non deriva né dall'usarsi per moneta, né dal consenso delle nazioni51 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 64.]».

6. La critica delle teorie monetarie contrattualistiche

Dopo aver ricondotto il valore della moneta a quello dei metalli preziosi, e dimostrato i princìpi che lo governano, Galiani, come aveva fatto nella dissertazione Sullo stato della moneta ai tempi della guerra troiana contesta, questa volta quasi a schernirle, tutte le interpretazioni contrattualistiche sul valore e sull'origine della moneta da lui ricondotte al pensiero di Aristotele. Egli, con tono di scherno, dichiara infatti che «sono da ridere invero tanti, che dicono essere gli uomini tutti un tempo convenuti ed avere acconsentito ad usar questi metalli, per sé di niun uso, come moneta, e cosí aver dato il loro valore. Dove sono mai questi congressi, queste convenzioni di tutto il genere umano; quale il secolo, quale il luogo, quali i deputati52 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 67.]».

Se si confronta questo passo con quanto aveva scritto Giovannantonio Fabbrini53 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 14.], si rileva una importante analogia tra il pensiero dei due autori e, attraverso una lettura comparata delle due opere, si potrebbe dimostrare che questa somiglianza non è l'unica riscontrabile, avanzando delle riserve sulla originalità del trattato galianeo.

A questo proposito Furio Diaz ha scritto che «se si eccettuano il Trattato del Broggia, le Riflessioni politiche sopra alcuni punti della scienza della moneta di Troiano Spinelli, nonché il Del commercio di Gerolamo Belloni (Roma 1750), ai quali Galiani stesso allude in alcuni passi del suo saggio, tutti gli altri appaiono esser stati composti proprio nel periodo stesso di elaborazione del Della Moneta o comunque in circostanze da non poter esser stati consultati dal nostro abate per la stesura della sua opera: anche quel Dell'indole e qualità naturali e civili della moneta e de' principi istoricj e naturali de' contratti, di Giovannantonio Fabbrini, pubblicato a Roma sui primi del 1750, ma di cui Galiani, che mostra di ben conoscere il lavoro del Belloni, pur posteriormente pubblicato, non fa alcun cenno54 [F. Diaz, Introduzione a Illuministi italiani, cit., p. XXI.]».

Il fatto che, come ha scritto l'autorevole storico, Galiani non accenni al libro di Fabbrini, non implica necessariamente che Galiani non lo conoscesse; bisogna tener conto in primo luogo che tra la pubblicazione delle due opere intercorrono quasi due anni, ma soprattutto dei rapporti tra l'ambiente in cui viveva il giovane Ferdinando e i circoli intellettuali romani, come lo stretto legame d'amicizia che egli aveva con Celestino Orlandi e con Niccolò Pagliarini, l'editore romano che aveva pubblicato il trattato monetario scritto da Fabbrini.

7. La natura della moneta

Galiani, pur avendo elaborato una teoria del valore molto articolata, non riesce a dare una definizione di moneta così diversa da quella dei suoi contemporanei. Egli, infatti, dopo aver precisato che la moneta è «una comune misura per conoscere il prezzo d'ogni cosa55 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 68.]», la definisce «pezzi di metallo, per autorità pubblica fatto dividere in parti o eguali o proporzionali fra loro, i quali si dànno e si prendono sicuramente da tutti come un pegno e una sicurezza perpetua di dover avere da altri, quandoché sia, un equivalente a quello che fu dato per aver questi pezzi di metallo56 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 69.]».

Il libro secondo si apre con la dimostrazione dell'utilità della moneta. Servendosi della «metodologia dei modelli», il giovane abate «riduce il fatto concreto complicatissimo a quelli che a lui paiono i tratti essenziali di essi; e su quel modello ragiona e trae la prime illazioni logiche e poi introduce la considerazione di un fattore prima trascurato ed osserva quali siano le correzioni che si devono arrecare alla legge di prima approssimazione a cui era primamente giunti; e quindi introduce un altro fattore di variazione e di nuovo corregge, sinché a lui paia di essere giunto alla enunciazione di una legge abbastanza rappresentativa della realtà piena57 [L. Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 278.]».

Le difficoltà di una economia composta di artigiani, ognuno specializzato nella produzione di un solo bene, caratterizzata dall'assenza un mezzo di scambio universalmente accettato, vengono descritte con grande precisione analitica; in questa situazione, giacché è «troppo malagevole sapere a chi la cosa a me soverchia manchi, o chi possegga la mancante a me58 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 87. È interessante notare la somiglianza con Davanzati il quale a questo proposito aveva affermato che era «malagevole sapere a cui la cosa a te soverchia mancasse, o la mancante a te altrui soverchiasse» (Lezione sulle monete, cit., p. 23).]», gli scambi saranno ridotti e potranno essere effettuati solo tramite il baratto. A ciò bisogna aggiungere gli inconvenienti che derivano dal trasporto, dallo stoccaggio e dalla divisibilità dei beni.

Queste difficoltà potrebbero essere eliminate attraverso una organizzazione sociale comunitaria, nella quale tutti i membri depositino i beni prodotti all'interno di «magazzini aperti e comuni», dove ciascuno può prendere tutto quello di cui ha bisogno. Tale organizzazione è realizzabile però solo nelle piccole comunità come gli ordini religiosi; nelle «città e i regni», che non sono popolati di gente «scelta e virtuosa», questo ordinamento risulta ingiusto, perché «il poltrone, defraudando il pubblico della sua opera, vivrebbe ingiustamente delle altrui fatiche59 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., pp. 87-88.]», ed inefficiente, perché «l'industrioso non muovendolo lo sprone del guadagno meno faticherebbe60 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 88.]».

Per ovviare a questi inconvenienti il giovane scrittore napoletano immagina che al momento di consegnare il suo prodotto ai magazzini ogni artigiano riceva un «bullettino» che rappresenta sia il valore di ciò che ha consegnato, sia il credito che ha verso la società. L'organizzazione così immaginata non è ancora perfetta perché ciascuno può «provvedersi di un solo genere di cose», dato che il «bulletino» esprime la quantità e la qualità di una sola merce che il depositante ha ragione di farsi consegnare. È necessario perciò l'intervento del principe che assegni «una valuta a tutte le cose, ossia su d'una comune misura regoli la valuta d'ogni cosa61 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 88.]», faccia in modo cioè, che i «bullettini» siano compilati in unità di conto comune, nella quale vengono anche espressi i prezzi. Un certo numero di «bullettini», in corrispondenza di un ugual valore di merci portate gratuitamente ai magazzini, deve però essere consegnato al principe affinché questi li distribuisca «alle presone che servono all'intero corpo» (i magistrati, i funzionari, i soldati, etc.). In questo modo, al contrario di quanto avviene nel baratto, ogni merce può esser convertita in mezzo di pagamento perché nel momento in cui la merce viene offerta ai magazzini, il «bullettino» ricevuto ha un potere d'acquisto generale. Anche in questo caso è possibile che sorgano dei problemi; i magazzinieri potrebbero infatti attribuire ai «bullettini» ceduti alle persone che vorrebbero favorire, un valore superiore al valore delle merci consegnate. Per evitare che si commettano queste frodi, il sovrano solo potrebbe segnare «una determinata quantità di «bullettini», tutti d'uno stesso prezzo, come a dire col prezzo d'una libbra di pane62 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 89.]». A questo punto i «bullettini» possono essere considerati delle vere proprie monete, anche se il rischio della frode e delle manipolazioni sui «bullettini» stessi non sarebbe totalmente eliminato, perché il principe conserva il potere di determinare il numero ed il valore dei «bullettini» stessi.

Galiani suggerisce perciò di scegliere come mezzo di scambio al posto dei «bullettini» i metalli preziosi, cioè una merce avente un valore naturale. La moneta metallica sfugge infatti a ogni determinazione arbitraria perché «in lei la qualità, il conio e la struttura assicurando dalla frode de' privati, e la intrinseca valuta ci assicura dall'abuso, cha mai ne potesse fare il principe; essendoché, se la materia non contenesse tutto il valore che la moneta, come se di cuoio o di carta si facesse uso, il principe potria stampare un numero eccessivo di bullettini; e questo solo dubbio ch'egli potesse farlo basta a toglierne o diminuire la fede e troncarne il corso. Ma la materia della moneta altri che Dio non può moltiplicarla, ed a volerla scavare o far venire d'altronde vi corre tanta spesa, quanto ella poi vale, e così non v'è guadagno ad accrescerla; e questa è la grandissima importanza che la moneta sia fatta d'un genere, che tutto il valore lo abbia naturale ed intrinseco, e non ideale63 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 91.]».

Il mezzo di pagamento sopra descritto ha due caratteristiche fondamentali: 1) viene universalmente accettato, 2) ha un volume ridotto che gli consente facilità di trasporto e di cambio. La prima caratteristica è il risultato di quattro fattori concorrenti: I. un «valore intrinseco e reale e nel tempo stesso da tutti uniformemente stimato»; II. la facilità «a sapersene la vera valuta»; III. che «sia difficile a commetervisi frode»; IV. che «abbia lunga conservazione».

Conseguenza immediata di queste premesse è che tutte quelle monete che «non hanno valore intrinseco ma convenzionale» come ad esempio la «moneta di cuoio o bullettini» non possono essere utilizzate come mezzo di universale di scambio. Il loro utilizzo è circoscritto a circostanze eccezionali visto che il loro valore dipende esclusivamente dalla «pubblica convenzione e fede» che molto spesso non coincide con il «pensare comune».

8. L'esame della moneta immaginaria

Nel precedente capitolo la moneta era stata distinta in due tipologie secondo i loro differenti usi: la moneta che «basta a valutare ogni cosa» che «è considerata come ideale», e la moneta con la quale si può effettivamente acquistare cioè la moneta reale, ed in particolare la moneta metallica.

Tale distinzione introduce l'analisi della moneta immaginaria, contraddistinta da una «promiscuità di nomi e molteplicità di concetti64 [P. Jannaccone, Moneta e Lavoro, cit., p. 33.]», frutto della sintesi di «parecchie delle idee disparate che altri avevano anteriormente enunciate65 [P. Jannaccone, Moneta e lavoro, cit., p. 34.]». Galiani definisce la moneta immaginaria quella moneta che «non ha un pezzo di metallo intero, che le corrisponda per appunto in valore66 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 92.]». Egli non si arresta alle definizioni; partendo dalla constatazione che «quando tutto incarisce, la moneta è quella ch'è avvilita, e, quando ogni cosa avvilisce, è incarita la moneta67 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 94.]», afferma, che sarebbe desiderabile «trovare una comune misura che non soffrisse movimento nessuno68 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 94; la ricerca di una «misura che non soffrisse movimento nessuno», rifiutata come frutto di «smoderate astrattezze razionalistiche dallo stesso maestro Intieri», scaturisce dall'«ostinata ricerca di rigore scientifico, dallo sforzo diretto ad enucleare per analogia da casi particolari leggi economiche ritenute universali» (V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., p. 580).]». Tuttavia, si affretta a precisare che «una comune misura che non soffrisse movimento nessuno», identificata poi con la «moneta ideale», «è più facile desiderare, che poterla rinvenire fralle umane cose», perché la natura è ordinata in modo tale che «una misura costante ed immutabile non occorre sperarla né ricercarla»; è necessario perciò accontentarsi di «una comune misura, che ha lenta variazione»: questa «si può usare egualmente bene che la stabile69 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 95.]».

L'abate napoletano è consapevole che una moneta immaginaria avente un valore invariabile non esiste; essa, essendo identificata con la moneta di conto,cioè con «l'equivalente di un certo numero di monete reali», risentirebbe quindi di «ogni mutamento del valore di scambio di queste si ripercuote sul valore di quella70 [P. Jannaccone, Moneta e lavoro, cit., pp. 34-35.]». In questo modo critica duramente i «molti e savi uomini, i quali sonosi persuasi che la moneta immaginaria sia una stabile e ferma misura, e perciò la esaltano e glorificano, e di lei sola vorrebbero che si facesse uso nei conti».

Ma non risparmia neppure coloro che «forse più sensatamente, credono che il rame sia quello, che di tutti i metalli, siccome è il più basso, così soggiaccia a minori vicende, non crescendone mai l'avidità o il lusso né la premura di scavarlo71 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 95.]». Quest'ultima frase va letta alla luce della nota VIII dell'edizione del 1780 in cui affermava che «tutto ciò che in questo capo e ne' seguenti si dice sulla moneta immaginaria, o sia di conto, è diretto a confutare l'opera di Carlo Broggia, nella quale sommamente si esaltava la moneta di conto e si proponeva di introdurla tra noi, quasiché il nostro ducato, con cui sempre numeriamo, non fosse anche esso in oggi una moneta immaginaria, giacché niuna se ne batte di questo valore».

Alla base della polemica c'erano due diverse idee di moneta immaginaria: per Broggia era un «equivalente costante di una determinata quantità di un dato metallo72 [P. Jannaccone, Moneta e lavoro, cit., pp. 35.]», mentre per Galiani era «l'equivalente costante di una determinata quantità di tutti i beni»; quindi, qualsiasi moneta immaginaria, ancorata ad una determinata quantità di metallo, non poteva assolutamente essere utilizzata come una misura stabile perché «ogni nuova miniera più ricca, che si scuopra, senz'altro indugio varia tutte le misure, non mostrando di toccar queste, ma mutando il prezzo alle cose misurate», e visto che «il metallo ha l'incomodo d'aver un prezzo variabile, si dovrebbe usare un altro genere meno incostante73 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 96.]», che in natura non esiste. Pertanto, questa «misura invariabile è un sogno una frenesia».

La sua critica nei confronti di Broggia e nei confronti di quanto quest'ultimo sosteneva in riferimento alla necessità di utilizzare il rame come moneta numeraria, credendolo un metallo che «soggiace meno alle frodi ed alle arti che sulla moneta si usano74 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 117.]», veniva motivata dal fatto anche questo era soggetto a variazioni. Galiani afferma, infatti, che «finché il rame è avvinto e legato dalla legge all'argento, sarà da esso tratto dietro in tutte le sue mutazioni75 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 118.]».

9. La teoria quantitativa della moneta

Anche il trattato monetario galianeo comprende una esposizione della teoria quantitativa della moneta. Egli, al pari di molti suoi contemporanei, non riuscì a descrivere in modo particolareggiato l'assunzione teorica per la quale il livello dei prezzi cambia in funzione della quantità di moneta limitandosi ad affrontare in molti passi dell'opera i problemi di carattere generale che derivavano da una variazione della massa monetaria.

Per descrivere la circolazione monetaria Galiani dimostra che l'assunzione di stampo mercantilistico «il denaro nerbo della guerra» è una «falsa persuasione». Egli ricorre infatti alla analogia per la quale «la moneta, utilissima come il sangue nel corpo dello Stato, vi si ha da mantenere fra certi limiti, che sieno proporzionati alle vene per cui corre; oltre ai quali accrescendosi o diminuendosi, diviene mortifera al corpo ch'ella reggeva. Non è dunque degna d'essere accumulata indefinitamente da' prìncipi e tesoreggiata77 [Lezione sulle monete, cit., p. 38; le analogie con lo scrittore fiorentino riscontrabili nel Della moneta e l'ingiustificata ostilità mostrata da Galiani nei confronti di quest'ultimo non erano sfuggite neppure a Giovanni Bottari il quale, nella già menzionata lettera indirizzata a Celestino Galiani, oltre ad accogliere il trattato con una certa freddezza aveva affermato: «Io non so perché anche l'anonimo abbia voluto, nell'introduzione, dar la lode a Melun e a Locke di priorità in iscrivere su questa materia, piuttosto che ad un italiano. Mi son creduto che egli non avesse notizia del Davanzati, e perciò lo scusava. Ma poi o veduto che lo cita più volte, ma solamente per morderlo fieramente, contro la protesta amplissima fatta nell'introduzione, anzi contro l'asserzione d'essersi sempre astenuto dal contraddire altrui citandolo; che vuol dire che è una bugia vera o un fallo di memoria. Di più, lo biasima a torto; e, per difesa, basti che a c. 160 disapprova un pensiero del Davanzati, che l'anonimo a c. 145 aveva proposto con grand'enfasi» (in F. Nicolini, Intorno a Ferdinando Galiani ..., cit. p. 9).]»; analogia già utilizzata da Bernardo Davanzati771 [Lezione sulle monete, cit., p. 38; le analogie con lo scrittore fiorentino riscontrabili nel Della moneta e l'ingiustificata ostilità mostrata da Galiani nei confronti di quest'ultimo non erano sfuggite neppure a Giovanni Bottari il quale, nella già menzionata lettera indirizzata a Celestino Galiani, oltre ad accogliere il trattato con una certa freddezza aveva affermato: «Io non so perché anche l'anonimo abbia voluto, nell'introduzione, dar la lode a Melun e a Locke di priorità in iscrivere su questa materia, piuttosto che ad un italiano. Mi son creduto che egli non avesse notizia del Davanzati, e perciò lo scusava. Ma poi o veduto che lo cita più volte, ma solamente per morderlo fieramente, contro la protesta amplissima fatta nell'introduzione, anzi contro l'asserzione d'essersi sempre astenuto dal contraddire altrui citandolo; che vuol dire che è una bugia vera o un fallo di memoria. Di più, lo biasima a torto; e, per difesa, basti che a c. 160 disapprova un pensiero del Davanzati, che l'anonimo a c. 145 aveva proposto con grand'enfasi» (in F. Nicolini, Intorno a Ferdinando Galiani ..., cit. p. 9).], che, anche in questo caso, non viene citato da Galiani.

Il valore della moneta non era soggetto a variazione soprattutto perché, come abbiamo visto, la produzione di metalli preziosi era relativamente stabile («non soggiacciono alla varietà delle raccolte»); ma, afferma Galiani evidenziando un aspetto fondamentale della futura teoria quantitativa, bisognava tener conto anche del fatto che era «la velocità del giro del danaro, non la quantità de' metalli, che fa apparir molto o poco il denaro78 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 60.]».

La dimostrazione degli effetti di un aumento della massa monetaria in circolazione sono l'immediata conseguenza della teoria quantitativa. All'argomento viene dedicato un intero capitolo nel quale, per confutare le tesi mercantilistiche, vengono esposti gli effetti di un aumento del circolante. A seguito di un incremento della quantità di moneta accadrà che «si dovrà con sei once permutare quello che prima si aveva con tre79 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 247.]», si sarebbe verificato, cioè, un aumento dei prezzi, ed in particolar modo un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, con conseguenze negative per tutta l'economia del paese, anche se, in alcuni passi80 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., pp. 28-30; 101; 104-106.] l'abbondanza di metalli preziosi viene associata alla prosperità economica.

Allo stesso modo un aumento della velocità del giro del denaro non poteva da solo stimolare l'attività economica perché «il corso della moneta è un effetto, non una causa delle ricchezze81 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 229.]»; perciò, contrariamente a quanto sostenevano gli scrittori mercantilisti che confondevano gli effetti con le cause, «la quantità del danaro non s'ha d'accrescere, se non quando si vede non esser bastante a muovere tutto il commercio senza intoppare e lasciarlo in secco82 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 230.]»

Le teorie formulate in questo capitolo vengono applicate alla situazione concreta del Regno di Napoli. Dopo aver effettuato una stima del circolante, egli dimostra la inopportunità di un aumento («sono persuaso che la moneta nostra sia bastante; ed essendo non solo inutile ma pernicioso l'accrescerla83 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 234.]») e la necessità che essa abbia «un corso non solo più veloce ma meglio distribuito e più uguale in tutti i canali suoi».

Galiani vede che l'aumento dei prezzi non era dovuto soltanto a cause monetarie, ad un aumento, cioè, della quantità di moneta (nonostante queste cause assumessero un'importanza preponderante); quando afferma che «ogni calamità fa incarire il prezzo alle cose84 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 105.]» individua chiaramente una causa non monetaria dell'aumento stesso, i cui effetti possono essere assimilati a quelli derivanti dalla «mancanza di produzioni natie». L'aumento dei prezzi che si verificava in situazioni di opulenza aveva effetti completamente diversi; egli, sottolinea infatti che «nelle prosperità la maggiore industria fa entrar danaro, ed è utile allora il prezzo caro, perché più danaro viene».

Ciascun governo doveva essere in grado di «discernere tra l'incarire della calamità e quello della prosperità». Il primo, di breve durata era subito seguito dalla diminuzione dei prezzi e dalla recessione economica, mentre il secondo, «non essendo disgiunto dall'abbondanza, non solo dura, ma trae fuori la gente per la speranza del guadagno. Questa reca con se nuove ricchezze, e vieppiù crescono i prezzi per l'abbondanza della moneta85 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 106.]», contribuendo alla prosperità economica di tutto lo Stato.

Interessante ci pare anche la posizione assunta dal giovane abate verso i divieti di esportazione delle monete. Le leggi che stabilivano tali divieti erano in primo contrarie luogo a quel principio secondo il quale «ciascuno sia delle sue cose arbitro e signore»; inoltre una legge ispirata alla virtù e dalla religione sarebbe stata sempre rispettata, ma una legge, che non si fosse ispirata a questi princìpi e che fosse entrata in conflitto con il guadagno molto difficilmente sarebbe stata rispettata.

Egli constatava che i metalli utilizzati per il conio delle monete venivano o estratti da miniere presenti sul territorio dello Stato oppure acquistati all'estero. Nel primo caso un paese che avesse vietato l'estrazione di metalli in eccesso ai bisogni del commercio avrebbe agito «insensatamente». Nel secondo caso l'estrazione di moneta era motivata dalla maggiore utilità che avrebbero potuto avere le merci, di lusso, come nel caso di uno stato opulento, o di prima necessità, come nel caso di uno stato colpito da una grave calamità. Per quest'ultima situazione l'estrazione di metalli diventava necessaria alla salvezza della vita degli abitanti e quando «nelle disgrazie degli Stati si salva la vita degli abitatori, si può dir salvo tutto; ché altro di danno non hanno le calamità, se non la spopolazione, la quale apporta danno ed a coloro cui toglie la vita ed a quelli a' quali la lascia misera e scompagnata. E perciò l'uscire il popolo è il male; l'uscire il denaro, se giova a ritenere il popolo è un bene».

10. Lo studio degli «alzamenti»

Il libro terzo del trattato monetario galianeo è interamente dedicato alla teoria dell'alzamento86 [Anche in questo caso ci pare opportuno sottolineare che la dipendenza delle teorie di Ferdinando Galiani da quelle di Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri e Giuseppe Orlandi è molto stretta. In particolare i primi due, spinti dall'esigenza di studiare le cause del processo inflattivo nel Mezzogiorno, valutarono «con attenzione sia i precedenti storici (peso e valore delle monete nelle epoche passate) sia gli effetti concreti [la valutazione quantitativa sull'economia napoletana] dell'inflazione nell'età contemporanea, al fine di ricavare con rigore leggi e modelli di previsione per il futuro». Bartolomeo Intieri, ad esempio, in un lettera indirizzata a Celestino Galiani affermava che per effettuare un paragone tra le rendite presenti e quelle anteriori alla scoperta dell'America era necessario «aver riguardo alla quantità di quelli metalli in quei tempi e a quelli de' tempi presenti» perché l'afflusso di metalli preziosi aveva provocato l'aumento del prezzo dei beni. Ma l'aspetto più interessante del dibattito economico che si svolse tra Intieri, Galiani, Rinuccini ed Orlandi è sicuramente quello che riguarda gli effetti degli alzamenti sull'economia; tutti costoro si schierarono a favore della tesi «che approvava simili interventi del governo, e giudicava solo momentanei i costi ch'essi comportavano per la povera gente». Le lettere sull'intera questione evidenziano «il meticoloso esame da parte di Intieri degli effetti dell'alzamento sui salari, sui prezzi del grano, sulle rendite esistenti nel regno»; inoltre un esame dettagliato e completo di questi scambi epistolari «porterebbe certamente ad una svolta nella ricostruzione della genesi del Della moneta» che apparirebbe come la sintesi delle idee economiche di uomini a lui molto vicini. (V. Ferrone, Scienza, natura, religione ..., cit., pp. 576-578). Molto critico è, anche in questo caso, il giudizio di Pierre Lebrun, il quale ha ironicamente ammesso che la teoria dell'alzamento «est la seule idée vraiment original, bien que, depuis Philippe le Bel, on ait eu le tempi d'observer le phénomènes» (Réflexions méthologiques sur l'histoire des théories ..., cit., p. 353).] delle monete. Questa trattazione, che Luigi Einaudi ha definito «splendente», è quella che per la maggior parte degli storici del pensiero economico presenta i caratteri di maggiore modernità rispetto al resto della teoria monetaria di Galiani.

I rapporti tra le numerose monete che circolavano, sia dello stesso metallo che di metalli diversi, venivano fissati dalla legge, ed espressi in unità di conto (lire immaginarie). Galiani individuò l'anomalia che impediva il perfetto funzionamento del sistema monetario nella «lentezza con al quale i governi seguivano le variazioni intervenute nei rapporti di mercato fra l'oro e l'argento; diguisaché, essendo sopravvalutato in lire il valore legale delle monete d'oro, queste erano fuse od esportate87 [L. Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 302.]», lo stesso accadeva per le monete d'argento; secondo il giovane abate, era necessario perciò, assegnare alle monete, invece che un corso forzoso in grida, un prezzo di «voce, che è prezzo fisso non forzoso». La legge, così come accadeva per tutti gli altri beni, doveva astenersi dal fissare il prezzo delle monete, limitandosi soltanto ad indicare un prezzo di «riferimento». Veniva così individuato un sistema che avrebbe impedito automaticamente la esportazione o la rifusione delle monete il cui metallo risultava sopravvalutato in grida.

Questa soluzione, che, come abbiamo visto, Luigi Einaudi ha chiamato «clausola galianea» è sempre secondo il giudizio dell'autorevole storico il contributo più importante del giovane abate alla teoria della moneta immaginaria88 [A questo riguardo è interessante notare che Galiani, a distanza di trent'anni dalla pubblicazione del Della Moneta, afferma di «aver parlato a lungo della utilità delle voci nel mio libbro della moneta alla pagina 186. Nel ristampar il mio libro due anni fa vi aggiunsi la nota, in cui declamai contro questo nuovo gravissimo sconcerto che da me era stato tenuto e pronosticato, e pur troppo si è verificato. Eccone le parole. Non eran quegli miei pensieri, né io in quella tenera età in cui feci quel libro conosceva il Regno in modo tale da poter far autorità li miei detti: ma erano questi i pensieri di D. Bartolomeo Intieri, del marchese Rinuccini, i maggiori uomini che nello studio della economia pubblica vi fossero allora, ad essi uniformavano il marchese Fraggianni, il presidente Ventura e monsig. Galiani mio zio. L'autorità di cotesti valent'uomini prevale a quelle di quanti parlano oggidì» (Manoscritto indirizzato al re senza alcun titolo e datato 22 dicembre 1782, tatto da Illuministi italiani, cit., Scritti vari e inediti, p. 743).]. La necessità di assegnare un prezzo di voce era inoltre giustificata per le seguenti ragioni: «I. per la facile valutazione delle monete, de' cambi, de' pagamenti e d'ogni contratto che si faccia col denaro; II. perché non può dar fuori la zecca moneta nuova senza darle prezzo e questo non può averlo regolato la moltitudine sopra monete ch'ella ha neppur viste; III. perché è necessaria una dichiarazione legale per que' contratti, in cui non fosse spiegata e convenuta; IV. perché a' giovani, alle vedove, a' pupilli, per non esser preda degli accorti, potria servire almeno di lume e di regola89 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 164.]».

Ma il diritto che il principe aveva di fissare il prezzo delle monete era generalmente utilizzato per effettuare un'altra operazione: l'alzamento. Questo provvedimento, che secondo Galiani doveva venir compiuto soltanto in casi di gravi necessità finanziarie («per soccorrere ai gravi bisogni»), evitava in primo luogo la diminuzione del peso e della bontà dell'intrinseco delle monete; quest'ultima, afferma Galiani, «non è operazione che possa cadere in animo di un principe nato degno di comandare. Egli è, da supremo arbitro, divenir falsatore e tosatore di monete. Perciò non è strano se sono più secoli che cosa tale non è avvenuta90 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 181.]».

Per comprendere il significato pratico della parola alzamento utilizziamo la efficace spiegazione di Einaudi, il quale ha affermato che «aumento, augmentation, alzamento sono le parole le quali significavano che se il corso, ad esempio, dello scudo d'argento era cresciuto in grida da L. 2 a L. 2. 1 s. 9d. Poiché si contrattava in lire (di conto od immaginarie), l'aumento della moneta effettiva era sinonimo di peggioramento od affoiblissement o indebolimento della moneta immaginaria. Lo stesso atto legislativo svalutava l'unità di conto e rivalutava la unità effettiva; quindi, dopo congruo intervallo, aumentava i prezzi dei beni economici in lire immaginarie e, dopo lo stesso intervallo, li lasciava costanti in moneta effettiva91 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., pp. 248-249.]». L'alzamento aveva perciò l'effetto di aumentare la quantità nominale di moneta.

Nel Della moneta è netta la distinzione tra l'alzamento particolare e l'alzamento generale. Le conseguenze del primo erano particolarmente negative in quanto esso provocava nella maggior parte dei casi una sproporzione tra le monete a seguito della quale si verificavano le conseguenze della "cosiddetta" Legge di Gresham. L'alzamento generale o più semplicemente alzamento viene definito «un profitto, che il principe e lo Stato ritraggono dalla lentezza con cui la moltitudine cambia la connessione delle idee intorno a' prezzi delle merci e della moneta92 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 188.]»

Per meglio descriverne gli effetti, l'alzamento del prezzo delle monete viene accomunato alla «vendita della nobiltà e de' titoli», fondati sulla connessione delle idee formate nel corso dei secoli e difficili a mutarsi in breve tempo; esso risulatava efficace perché la connessione di idee che gli uomini avevano sui prezzi e sui beni stessi, come la connessione di idee sulla nobiltà mutava lentamente; gli uomini, infatti, «avvezzi a pagare una vivanda un ducato, sempre che essi hanno in mano una cosa che dicesi un ducato, vogliono cambiarla colla vivanda, e finché non se ne discredano, si dolgono dell'avarizia di chi la negasse loro, o incolpano scioccamente altrui di aver fatta incarire ogni cosa93 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 189.]».

La svalutazione non avrebbe avuto alcun effetto se fosse stata immediatamente seguita da un aumento dei prezzi; in questo caso le monete «in vece di nominarsi co' nomi italiani, si avessero a dinotare con nomi latini o greci o ebraici94 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 188.]»; l'aumento dei prezzi, dichiara Galiani, «è la medicina dell'alzamento [delle monete]». L'efficacia dell'alzamento delle monete era quindi circoscritta al momento intermedio, che intercorre tra il provvedimento del principe e l'aumento generalizzato dei prezzi. Molto eloquente è l'immagine fornita per descrivere il passaggio da un equilibrio all'altro; egli paragona l'alzamento a «quel moto che fanno le acque d'un pozzo percosse da una pietra cadutavi nel mezzo95 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 207.]».

Per confutare le idee degli autori (anche in questo caso sembra polemizzare direttamente con Broggia97 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 193.]) i quali avevano affermato che «il principe per un istantaneo guadagno perda per sempre grossa parte delle sue rendite e riceva danno grandissimo971 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 193.]», Galiani dimostra in primo luogo che non sempre «l'alzamento è seguito da minore entrata»; dato che a seguito di un alzamento si verifica una diminuzione della tariffa dei tributi, esso deve produrre un aumento nel gettito delle imposte. Galiani enuncia così «il principio della elasticità del gettito dei tributi in funzione dell'altezza della tariffa dei tributi medesimi98 [L. Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 295.]», che è vero, come ha precisato Einaudi «soltanto se prima la tariffa era stata calcolata in modo erroneo, stabilendola ad un punto siffatto che il gettito delle imposte fosse minore di quel che si sarebbe ottenuto con tariffa più bassa99 [L. Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 296.]»

La descrizione degli effetti della svalutazione è la parte centrale del ragionamento galianeo: sulla scorta di quanto aveva sostenuto Melon, è affermato «il solo effetto reale, che fa l'alzamento, è liberare il debitore di alcuna somma anteriore alla mutazione de' prezzi della moneta dal dover restituire quell'istesso ch'egli ebbe. Ma una tale mutazione, siccome è fra due ugualmente sudditi, non può produrre minore entrata allo Stato. Il principe, che è di tutti il maggior debitore, anch'egli si disobbliga100 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 195.]». La diminuzione dei debiti del sovrano è il risultato immediato dell'alzamento delle monete, che non produce nessun effetto sulla ricchezza reale del paese.

Molto efficace è la spiegazione dei meccanismi di trasmissione su tutta l'economia dell'aumento dei prezzi a seguito di un alzamento. L'aumento si verifica durante un intervallo di tempo più o meno lungo, e potrebbe addirittura non verificarsi se l'alzamento delle monete avvenisse «in un isola separata da ogni straniero commercio». I mercanti stranieri infatti, non si accontentano di esser pagati con monete aventi lo stesso valore nominale, ma pretendono la stessa quantità in termini di metallo pregiato. Ciò provoca la variazione del cambio, «il termometro degli stati», e il conseguente aumento del prezzo delle merci importate. Dalle merci straniere l'aumento si propaga a quelle nazionali, fino a quando l'aumento diviene generalizzato. A questo punto il cerchio si chiude, la burocrazia al soldo del principe sperimenta l'aumento dei prezzi e reclama un aumento di salario che, se ottenuto, pone fine ai vantaggi del sovrano.

L'efficacia della svalutazione è circoscritta quindi «al momento intermedio, nella quale essa non ha ancora ottenuto l'effetto del pieno contemporaneo e proporzionale aumento dei prezzi ed al caso in cui essa non sia stata resa vana dalla ripetizione101 [L. Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 293.]»; in quest'ultimo caso infatti il principe sconvolgerebbe infatti «ogni di connessione d'idea fra i prezzi e le merci».

Melon, con il quale Galiani sembra concordare su questo punto, aveva affermato che coloro i quali si lagnavano dell'alzamento delle monete erano «les riches créanciers, et non pas le peuple débiteur, à qui l'augmentation est d'autant plus avantageuse, qu'il est plus debiteur», l'alzamento era quindi ritenuto legittimo perché «il y a d'ailleurs mille débiteurs pour un créancier, parce que celui qui est en même temps créancier d'un particulier et débiteur d'en autre, ne se trouve plus que débiteur, si celui dont il est créancier devient insolvable; au lieu que, si celui qui perd n'est que créancier, toute la perte se termine en lui. Cette chaîne s'étend sur le second, sur le toisième, etc., et c'est de là que part cette maxime de Droit, qui est encore bien plus maxime d'État, qu'il faut toujours favoriser le débiteur102 [Jean-François Melon, Essai politique sur le commerce, Rouen, 1734, publié par E. Daire, Économistes financiers du dix-huitième siècle, Paris, chez Guillaumin libraire, 1843, pp. 778-779.]».

Lo scrittore francese però, secondo Galiani, aveva equivocato il significato delle parole ricco e povero. Per lui «ricco è colui, il quale ha modo di poter godere delle altrui fatiche senza dover prestare una equivalente fatica in atto, avendo presso di sé le fatiche sue o da' suoi maggiori fatte prima e convertite in danaro. Perciò è ricco chi ha molto danaro, ed è creditore delle fatiche: il povero non ha danaro, ma n'è creditore sul ricco mediante la sua fatica, ch'egli a lui deve. Sicché, stando sull'opposte bilance il danaro e le fatiche, il ricco è il debitore del danaro; dunque giova al ricco, facendo che con maggior fatica s'abbia ad acquistare lo stesso vero valor di metallo (io qui parlo dell'alzamento prima della mutazione de' prezzi delle fatiche, seguendo la quale egli è distrutto): sicché egli è ingiusto, giacché arricchisce il ricco ed aggrava di peso il povero103 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 206. Visto che la questione è importante (Luigi Einaudi ha scritto che nella individuazione dei debitori e dei creditori «sta il punto decisivo» di tutta le teoria degli alzamenti) va rilevato che il problema era stato posto negli stessi termini e forse prima di Galiani, nella breve memoria intitolata «Problema se meglio sia accrescere il prezzo della moneta oppure minorarlo», pubblicata nella parte terza della raccolta di Filippo Argelati. L'autore, un Anonimo Milanese, ragiona infatti così: «In primo luogo distinguo il Mondo principalmente in due parti, nella prima de' Ricchi debitori a' Poveri degli Alimenti, e Mercedi, e nella seconda de' Poveri nati, fatti a vivere al pan de' Ricchi» (De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 84).]».

In tempi di prosperità il ricorso alla svalutazione è quindi ingiusto; i suoi effetti sono opposti a quelli ipotizzati da Melon perché un povero sarà costretto a offrire la medesima quantità di lavoro in cambio di un salario reale minore. Galiani limita esplicitamente - e forse la storiografia non ha sottolineato con la dovuta attenzione questo aspetto - il ricorso all'alzamento quando è praticamente impossibile ricorrere a nuove imposte, esso «s'ha da far solo negli estremi mali» e «nelle strettezze dei bisogni», il provvedimento viene paragonato al fallimento, anche se rispetto a quest'ultimo, che ha un effetto immediato e su poche persone, l'impatto lento e colpisce tutti.

Nei tempi calamitosi, invece, quando lo Stato si trova in una congiuntura calamitosa, al contrario, «il principe, che, per essere la più ricca persona, è il maggior debitore di danaro, diviene povero di danaro; e perciò gli giova l'alzamento a farlo restar creditore delle medesime fatiche da' ministri, non ostante ch'ei non soddisfi lo stesso debito di mercede104 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., pp. 206-207.]». In questo caso il principe evita di aggravare le imposte perché risparmia pagando i salari in moneta svalutata; inoltre le persone più povere che riescono ad alzare «il prezzo delle loro fatiche», contemporaneamente alla diminuzione delle imposte, che vengono corrisposte con moneta svalutata, sono quelle che traggono il maggior vantaggio da questa situazione («il maggior utile è loro»).

L'alzamento non è per Galiani uno strumento ordinario di politica economica. Il principe, prima di ordinarlo, deve valutarne attentamente tutte le conseguenze. I pregiudizi che la maggior parte degli scrittori aveva nei confronti di questo provvedimento dipendevano, afferma Galiani, dal fatto che «rarissime volte si è fatto per vera necessità da principe virtuoso; quasi sempre per avarizia o per falso consiglio d'utilità». La valutazione dei vantaggi e degli svantaggi dell'alzamento è molto importante, essa deve venir eseguita tenendo conto del fatto che «quando le determinazioni sono miste di buono e di cattivo, quale è la più gran parte delle umane, si ha da computare e pesare esattamente e l'uno e l'altro; e sottraendo il minore dal maggiore, conoscere quale supera e di quanto105 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 192.]».

L'alzamento del prezzo delle monete, oltre agli effetti contingenti esaminati, ne produceva degli altri, ben più duraturi che incidono sulla distribuzione delle ricchezze. Secondo Galiani, la penalizzazione di coloro che vivevano di censi e rendite fisse era giusta perché questi «sono gli antichi signori, i luoghi pii ricchissimi e le opulenti chiese e monasteri: né si pagano censi enfiteutici a' contadini. Coloro, che danno in affitto, degni di pagare, quanto, senza accrescere le ricchezze dello Stato, consumano non solo le proprie, ma le straniere ancora. Né bisogna stare a chiamare in soccorso e a spaurirci colle tenere voci d'orfani, vedove, vergini e pupilli, poiché questi sono pochi assai. Il vero orfano, il vero povero è il contadino industrioso, l'artigiano, il marinaio e il mercante. Di costoro s'ha da aver compassione, ed essi sono quelli, che, essendo soliti pigliare in affitto, guadagnano nell'alzamento106 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 211.]».

11. Gli effetti della svalutazione «sulla soddisfazione de' debiti e de' censi»

Le conseguenze di un alzamento erano, come abbiamo visto, particolarmente negative perché rendevano incerti i rapporti di debito e credito tra i privati. Pur riconoscendo che la questione è «non men antica che difficile e lunga», Galiani dedica sorprendentemente alla risoluzione della stessa pochissimo spazio. Essa viene così definita: «con qual moneta s'abbiano a pagare i debiti, se con quella che ottiene lo stesso nome della gia stipulata, sebbbene con disegual peso, o con quella che s'eguagli nella quantità del metallo alla convenuta tra i contraenti107 [Ferdinando Galiani, Della moneta ..., cit., p. 299.]». Il problema poteva venir analizzato in due modi differenti: «secondo le leggi positive de' re» oppure «secondo gl'insegnamenti della ragione e della natural giustizia». Il giudizio rispetto alle leggi positive veniva lasciato ai giuristi, mentre se si giudicava l'alzamento delle monete rispetto al diritto naturale, esso era sicuramente un provvedimento che oppugnava e sovvertiva la natura, anche se quest'ultimo giudizio diventava inutile se non per chi non conosceva «che sia l'alzamento».

Coloro che sostenevano che nella restituzione di una somma di denaro si dovesse tener conto solo del valore intrinseco e cioè del peso del metallo (posizione che può essere ricondotta a quella metallistica formulata per la prima volta in modo compiuto da Bartolo da Sassoferrato) per rispettare il principio di «egualità», erano per Galiani sicuramente in errore. Il valore intrinseco della moneta, «è quasi tanto variabile quanto l'estrinseco», per questo ogni riferimento al principio di «egualità» risultava impossibile. Se si intendeva, ad esempio, restituire un mutuo di denaro contratto cento anni prima con la stessa quantità di metallo avuto in prestito, cento libbre d'argento, non si restituiva l'equivalente, ma appena un terzo, dato che l'argento aveva subito un deprezzamento in questa proporzione rispetto a tutte le altre merci. Allo stesso modo i redditi fissi (come la rendita de' feudi, le pigioni, i frutti d'un podere) potevano diminuire non soltanto in funzione della svalutazione della moneta, ma anche a causa di fattori contingenti che derivano dalla «instabilità delle umane cose». Lungo un intervallo di tempo era pertanto impossibile individuare un criterio di giustizia in base al quale valutare se un contratto si ispirasse al principio di «egualità». La soluzione di Galiani è univoca e non lascia spazio ad interpretazioni: la svalutazione delle monete, in quanto «factum principis», andava accettata ed era inutile ogni tentativo volto a resistergli.

12. Il riesame della questione nei Dialogues

Molto significative sono le riflessioni fatte da Galiani vent'anni dopo la pubblicazione del Della moneta. Nei Dialogues Sur le commerce des bléds egli riformulò, in maniera quasi radicale, i suoi giudizi sugli effetti dell'alzamento, alla luce del dibattito monetario che si svolse posteriormente all'uscita del suo libro.

In quest'opera egli da un maggior peso al disordine sociale derivante dagli alzamenti monetari, ed alla fine ammette che «i vantaggi temporanei della svalutazione impallidiscono tuttavia dinnanzi ai mali che una intera generazione deve soffrire innanzi a che un nuovo equilibrio si ristabilisca108 [Luigi Einaudi, Galiani Economista, cit., p. 300.]».

Il danno provocato dall'alzamento delle monete alla fede pubblica era minimo, se si teneva conto, afferma Galiani, dell'altro effetto più devastante; accadeva infatti che quando «la valeur numéraire de toutes les choses est changée, le trouble s'empare de toutes les coeurs, on ignore son sort, la gaieté disparait109 [Ferdinando Galiani, Dialogues sur le commerce des bléds, a Londres, (Paris, Merlin), 1770, in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte moderna, vol. VI, Milano, Destefanis, 1803, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1967, p. 140.]». Ma a soffrire i danni concreti di questa situazione erano soprattutto i percettori di redditi fissi come ad esempio «i servitori dei grandi, i quali divenuti vecchi, il padrone, in ricompensa della fedeltà dei loro servizi, aveva legato una pensione uguale al salario». Costoro si trovavano in grandissima difficoltà dato che a seguito di un alzamento ed alla crescita del prezzo dei generi di prima necessità, assistevano impotenti alla riduzione dei loro redditi. Non migliore era la situazione di operai, impiegati e magistrati, che solo dopo molto tempo riuscivano ad ottenere un aumento dei salari e stipendi proporzionale all'aumento dei beni sui mercati.

13. Le reazioni dei contemporanei all'uscita del Della Moneta

Tra la fine del 1751 ed il 1752 Galiani fece un lungo viaggio nelle città italiane «per far conoscere l'opera sua, per raccogliere gli allori che il suo precoce e straordinario ingegno gli prometteva e per radunare ulteriori dati ed elementi che potessero servire alle sue riflessioni economiche e politiche110 [Ferdinando Galiani, Diario, 1751-1752 (citazione tratta da: Franco Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 504).]»; viaggio che gli permise inoltre di confrontare le sue idee con quelle di coloro che in quello stesso periodo si stavano occupando di problemi monetari.

Filippo Argelati avrebbe voluto inserire uno111 [Non siamo in grado di stabilire se Argelati avesse voluto includere nel De monetis Italiæ proprio il Della moneta. F. Venturi afferma che Galiani «a Milano conobbe Argelati che gli chiese uno scritto da inserire nel quinto volume della sua silloge» (Settecento riformatore, cit., p. 505); mentre al contrario F. Diaz sostiene, sulla base di una lettera inviata a Galiani dal principe Trivulzio, che Argelati aveva «intenzione di ristampare il suo dotto saggio in quel quinto volume del De monetis Italiæ» che non riuscirà a pubblicare (Introduzione a Illuministi italiani ..., cit., p. XXII).] scritto di Galiani nel De monetis Italiæ, ma nonstante le molte lettere di sollecito l'editore milanese non riuscì a realizzare questo progetto. Pompeo Neri che, come abbiamo visto, fu uno dei primi a conoscere l'opera di Galiani, rimase particolarmente colpito dalle sue idee, pur non condividendole interamente. Egli ammirava la capacità analitica di Galiani, ma non riusciva ad accettare le sue posizioni riguardo all'alzamento delle monete; nella citata Appendice alle Osservazioni affermò infatti di non restar «veramente persuaso che l'alzamento arbitrario della moneta sia meno nocivo del fallimento, parendomi i mali dell'alzamento più estesi, più importanti, più casualmente gettati sopra il popolo e specialmente sopra i poveri, come sono tutti i creditori delle proprie fatiche, e più durevoli112 [Pompeo Neri, Appendice alle Osservazioni ..., cit., p. 369.]».

Molto significative sono infine le due recensioni del libro di Galiani apparse sulle Novelle letterarie di Firenze. A distanza di sei mesi il redattore [Giovanni Lami] dell'importante periodico fiorentino accolse l'opera dell'abate napoletano dapprima con favore, per poi mutare il proprio giudizio che si rivelò del tutto critico. Mentre nel primo estratto, che aveva una funzione espositiva, il giornale faceva notare come nel Della moneta, fossero presenti alcune teorie, come quella del valore esposte in modo corretto, nel secondo articolo, forse a seguito di un esame più attento della questione, il giudizio formulato era completamente diverso; le teorie esposte nei primi due libri del trattato venivano giudicate «ovvie», mentre tutto ciò che nel terzo libro veniva detto sull'alzamento era «assai prolisso e rigirato»; inoltre sostenere che «da esso strani effetti non si derivino tra i particolari, è troppo patente la pratica in contrario, che ogni giorno si vede a dispetto di tutte le teorie; ed io mi son trovato a udirla, e considerarla in un gran Regno; su cui però non lascia ragionare il nostro anonimo autore». Questo cambiamento di tono, «così benevolo nel primo estratto e piuttosto prevenuto nel secondo113 [F. Diaz ha ipotizzato che questo mutamento radicale fosse dovuto al fatto che «al momento della prima menzione, nel giugno del 1752, il recensore, che era il Lami in persona, non conosceva il nome dell'autore ma, come molti altri in Italia, sospettava che fosse Celestino Galiani [«Chi sia l'autore non lo so, perché non vi ha messo il suo nome: ma dicono che sia un prelato dottissimo, non meno affezionato suddito a quel re, che zelante cittadino» Novelle letterarie di Firenze, n. 22, 1752]; mentre quando viene pubblicato il secondo estratto, nel dicembre dello stesso anno, l'identità dell'autore, nella persona del giovane e sconosciuto nipote di Celestino, è già largamente trapelata, e questa conoscenza vale anche a spiegare il tono di superiorità con cui il Lami inizia il suo articolo» (Introduzione a Illuministi italiani ..., cit., Preliminari a Della moneta, p. 8).]» è dovuto soprattutto al fatto che l'autore delle Novelle letterarie aveva preso atto che le idee di Galiani, anche se erano state accolte con un moderato entusiasmo, perché erano sotto alcuni aspetti decisamente innovative, venivano osteggiate in tutti gli scritti usciti in quel periodo sulle questioni monetarie, tutti fermamente contrari agli alzamenti delle monete.

 
 
 
 
 

 
 

powered by dab