CAPITOLO III

Il dibattito monetario nella seconda metà del secolo XVIII

1. Premessa

La situazione economica ereditata dagli Stati italiani all'indomani della pace di Aquisgrana fu caratterizzata da una spinta inflazionistica di forte intensità causata dalle spese, dalle rovine e dai debiti delle guerre. Questo movimento, che da secoli interessava tutto il continente europeo, aveva finito per provocare il deterioramento della già complicata situazione monetaria.

La maggior parte degli storici dell'economia è incline ad imputare l'aumento dei prezzi, verificatosi in questo periodo, ad una continua diminuzione del metallo contenuto dalle monete di piccolo taglio; come abbiamo visto, questa diminuzione, nella maggior parte dei casi, era accompagnata da un "rincaro" delle monete nobili, che venivano preservate dalle alterazioni, e dal corrispondente "peggioramento" della moneta di conto.

Gli squilibri provocati dal movimento dei prezzi, richiamarono non solo l'attenzione di economisti e di uomini di governo, che proprio in quel periodo si accingevano a varare importanti riforme di carattere economico e sociale, ma anche di coloro che, consapevoli dell'origine antica di questi problemi, produssero un gran numero di opere di carattere storico-erudito sul tema monetario.

2. Carlo Antonio Broggia: questioni monetarie e politiche di riforma nel Regno di Napoli

La priorità spetta, almeno cronologicamente parlando, al Trattato de' tributi, delle Monete, e del governo politico della Sanità; etc. di Carlo Antonio Broggia pubblicato a Napoli nel 1743. Questo scritto, per la lucidità con cui analizzò i problemi, fu alla base di tutta la discussione che si svolse nel decennio successivo, specialmente nel Regno di Napoli. L'opera di Broggia, ammirata da autorevoli scrittori come Giuseppe Forziati e Pompeo Neri, venne però accolta con estrema freddezza da Ferdinando Galiani che, forse per ragioni politiche, fu estremamente ingiusto nei confronti del conterraneo1 [Vedi ad esempio: F. Galiani, Della moneta ..., cit., p. 8; di diverso avviso è, questa volta, F. Ferrara il quale afferma che l'opera di Broggia, «dacché fu troppo ingiustamente dileggiata da Galiani, perdette in Italia la sua fortuna, essendo una delle poche a cui, malgrado l'incorreggiabile nostra tendenza a magnificare le nostre glorie, non suol darsi un gran merito»; F. Ferrara, Della moneta e dei suoi surrogati, cit., p. 98.].

Nel Trattato le concezioni monetarie si inseriscono all'interno di un vasto disegno di riforma, scaturito da un attento esame della realtà politica ed economica del Regno di Napoli alla metà del secolo XVIII. Broggia definisce la moneta «misura generale di tutte le cose venali2 [Carlo Antonio Broggia, Trattato ..., cit., vol. V, p. 305.]» e immediatamente dopo precisa, in contrasto con le dottrine mercantiliste, quanto sia errato identificare quest'ultima con la ricchezza; una simile concezione della moneta era così radicata tra i popoli da causare perfino la decadenza di alcune nazioni, i cui sovrani si preoccupavano esclusivamente di accumulare metalli preziosi trascurando così tutte le altre attività economiche. Per Broggia la vera ricchezza era solo quella prodotta dal commercio e dall'industria, dalle quali scaturiva l'abbondanza di monete.

Prima di affrontare le questioni più complicate, l'autore del Trattato cerca di mettere ordine ai termini utilizzati per descrivere i fenomeni monetari. Innanzitutto precisa che quello che comunemente veniva chiamato «alzamento» altro non era che una «riduzione» provocata dalla variazione del prezzo delle monete oppure dalla diminuzione del peso e/o della bontà del metallo con le quali venivano coniate. L'effetto principale di queste manipolazioni era un aumento dei prezzi in misura più che proporzionale rispetto alla «riduzione» delle monete, con conseguenze negative sia per l'erario dello Stato, che riscuoteva tributi in moneta deprezzata, che per i privati, specialmente se creditori, i quali ricevevano moneta avente lo stesso valore legale ma con un minore contenuto di metallo fino.

L'esposizione dei danni generati dalle alterazioni monetarie era rivolta a confutare direttamente le tesi degli scrittori francesi Melon e Savary, decisamente favorevoli a questo tipo di manipolazioni, continuamente chiamati in causa - specialmente il primo, l'opera3 [Jean François Melon, Essai politique sur le commerce, Rouen, 1734.] del quale verrà tradotta in questi anni - nei trattati monetari pubblicati in Italia in questo periodo. Le continue diminuzioni della valore della moneta venivano ritenute dannose soprattutto perché Broggia considera questa lo strumento principale del commercio; quando lo Stato alterava la moneta danneggiava inevitabilmente i mercati con ripercussioni negative, attraverso l'aumento dei prezzi, su tutta l'economia.

Le politiche monetarie attuate dai governi che dalla fine del secolo XVII avevano retto il Regno di Napoli erano per Broggia un esempio negativo. Le svalutazioni monetarie, conseguenza immediata dei provvedimenti presi per sopperire alla mancanza di numerario, avevano provocato effetti disastrosi e la situazione economica del Regno nel periodo immediatamente successivo alla pace era divenuta insostenibile.

La relazione tra l'alterazione monetaria e l'aumento dei prezzi, precisa Broggia, non era affatto proporzionale perché ciascuno, per quanto gli era possibile, avrebbe cercato di trarre maggior profitto dalla situazione di incertezza creata. Sarebbe accaduto allora che, alcune merci sarebbero state vendute allo stesso prezzo di prima, con una perdita per i venditori, mentre altre ad un prezzo superiore alla misura della diminuzione, con una perdita evidente per i compratori.

Anche se l'effetto più deprecabile, dal punto di vista economico, dell'aumento generalizzato dei prezzi delle merci era certamente il ristagno della domanda ed una serie di fallimenti, lo svilimento della moneta andava soprattutto a detrimento delle classi lavoratrici, incapaci di adeguare i loro salari ai prezzi continuamente crescenti.

Tutte le argomentazioni del Trattato sono rivolte a dimostrare che i vantaggi che il principe otteneva da una «diminuzione» della moneta erano solo temporanei ed in breve tempo si sarebbero trasformati in perdite per tutto lo Stato, a causa della situazione di incertezza e di confusione che si diffondeva tra gli operatori economici.

La situazione caotica provocata dai continui svilimenti della poteva essere fronteggiata solo con una radicale riforma del sistema monetario basta sullo strumento della «moneta immaginaria», definita da Broggia quella che non ha valore intrinseco «ma lo ha nell'estrinseco sempre ad un modo ed immutabile; vale a dire non esiste in ispecie tale quale è determinata, ma esiste nel suo prezzo il quale non muta giammai, come mutano le monete d'oro e d'argento le quali sono effettive4 [Carlo Antonio Broggia, Trattato ..., cit., vol. V, p. 104.]».

L'utilizzo di quest'«espediente meraviglioso» avrebbe permesso di eliminare «le confusioni, le difficoltà e i disordini» provocati dalla diminuzione delle monete. Questa moneta, che egli identifica con una quantità fissa di rame, avrebbe potuto rendere possibile la valutazione di tutte le altre monete in base al loro contenuto metallico, il rame risultava infatti il metallo «meno esposto ad arbitrarie alterazioni di valore ed a naturali variazioni di quantità, e perché, essendo il metallo di minor valore, serve ad esprimere il prezzo di tutte le monete di metallo più nobile mentre non ha sotto di sè altra moneta nella quale il suo prezzo si esprima5 [P. Jannaccone, Moneta e lavoro, cit., p. 40.]».

Le monete nobili oltre ad avere un prezzo fisso determinato dal loro contenuto di fino e dal loro rapporto reciproco, avevano un altro prezzo che si formava giornalmente sui mercati, ad esempio, quando esisteva una sproporzione tra domanda e offerta; la differenza tra il valore reale delle monete ed il prezzo che si forma sul mercato si chiama «aggio». L'esistenza di un aggio non necessariamente rivelava una situazione negativa, spesso era il segno che fiorivano i traffici sulle valute e che prosperavano i commerci.

3. Teorie monetarie e problematiche giuridiche nell'opera di Giovannantonio Fabbrini

L'opera di Broggia rimase però un fatto isolato perché la sua analisi era circoscritta ai problemi del Regno di Napoli. Alcuni anni dopo a Roma, nei primi mesi del 1750, venne pubblicato, anonimo, il libro di Giovannantonio Fabbrini: Dell'indole, e qualità naturali, e civili della moneta e de' principj istorici e naturali de' contratti. Dissertazioni6 [Stamperia di Pallade, Niccolò e Marco Pagliarini, Roma, 1750. Era già approvato per la stampa nel settembre del 1749. In una nota manoscritta nella copia appartenuta all'autore - ora nella Biblioteca della Facoltà di Economia e commercio dell'Università di Bologna - si legge che l'opera fu terminata nel 1741 (L. Dal Pane, Lo Stato Pontificio e il movimento riformatore del settecento, Milano Giuffré, 1959, p. 162).]. I problemi monetari erano particolarmente sentiti nello Stato Pontificio che «era ben noto per le periodiche svalutazioni della moneta, la scarsità o l'assenza di circolante, il ristagno della sua situazione economica7 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit, p. 445.]».

Giovannatonio (o Giannantonio) Fabbrini, avvocato toscano legato ai circoli riformatori romani, era molto stimato dai suoi contemporanei; La Storia letteraria d'Italia lo definisce «valoroso Fiorentino8 [Storia letteraria d'Italia, volume V, Modena, Poletti, 1753, p. 190.]», e, nella recensione di una sua operetta giuridica9 [Giovannantonio Fabbrini, Il naturale diritto di vindicare o di perseguire una cosa mobile esaminato ne i suoi principi e nella sua estensione precisivamente dalle spiegazioni sinora datane da vari scrittori di gius naturale, Filippo Maria Benedini, Lucca, 1751.] pubblicata a Lucca nel 1751, parla di lui come di «uno dei maggiori uomini che abbia l'Italia in materia di naturale diritto, la qual facoltà, a vero dire meriterebbe d'esser un po' coltivata, onde non dovessimo presso ch'a soli protestanti ricorrere10 [Storia letteraria d'Italia, volume cit., p. 190.]».

La cultura giuridica, con la quale «questo intelligente e colto avvocato toscano11 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 445.]» affrontava le questioni monetarie, conferisce a quest'opera un carattere così particolare da sorprendere perfino qualche suo contemporaneo il quale affermò che «la Dissertazione per avventura sembrerà più idonea per la cattedra, che per la pratica, più per dilettare l'orecchio erudito degli studiosi di legge che per istabilir Massime politiche per un retto governo. Tuttavia negar non si può, che rannicchiate qui sieno gravissime dottrine12 [Novelle della repubblica letteraria, Venezia, Domenico Occhi, 1753, p. 149.]».

L'autore inizia il trattato con la fondamentale questione degli effetti delle svalutazioni sui rapporti di debito e credito; in altre parole si chiede se il danno provocato da una mutazione monetaria debba ricadere sul creditore oppure sul debitore: questione che, stando al suo parere, le numerose opere scritte dai giuristi avevano avuto il solo effetto di rendere «sommamente intricata». Era necessario, pertanto, fare riferimento in primo luogo alla «ragione universale di tutte le età», definita dall'autore «quella ragione e quel calcolo, che è gustato, che è sentito da tutti gli uomini di tutte le professioni13 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 3.]». Da questa ragione universale, che egli identifica con il diritto naturale, scaturivano i princìpi «del commercio, delle Monete e delle finanze»; princìpi che spesso divergevano da quelli formulati dalla dottrina giuridica («i dettami della Giurisprudenza»).

L'esigenza di definire il concetto di valore nasceva dalla necessità di stabilire un parametro sopra il quale concepire i rapporti di scambio («le permute»). Egli, consapevole della impossibilità di definire in modo univoco questo concetto, chiarisce subito che esso è «multiplice e vario»; molteplicità può essere così sintetizzata: il valore «fisico o virtuale» è l'attitudine che hanno le cose (reali o astratte) a soddisfare i bisogni degli uomini; siccome gli uomini giudicano questa capacità in modo diverso, saranno diverse le idee di valore che essi hanno delle cose. Potremmo perciò definire valore «proprio, arbitrario o d'affezione» quello che si forma nella mente di ciascun uomo.

Per trovare una misura comune, utile agli scambi, è necessario però ridurre ad uguaglianza le diverse idee di valore; ciò è possibile attraverso un'ulteriore concetto di valore, quello di valore «comune, e volgare» definito dall'autore «una quantità morale imposta alle cose, e alle azioni, che sono soggetto di commercio, secondo la loro indole naturale comunemente dagli uomini riconosciuta, giusta la quale fra loro si conferiscono, e si sa il loro rapporto, e si possono senza danno permutare14 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 9.]», questo valore dipende dal concorso di due fattori: la capacità delle cose di essere utili ai bisogni della vita (l'utilità) e la difficoltà che hanno gli uomini di procacciarsi le medesime (la rarità).

L'idea di valore, come abbiamo visto, origina dalla necessità che hanno gli uomini di permutare le cose comode alla vita; per esprimere tale valore era necessario quindi trovare una «sostanza» in grado di materializzare questa «quantità morale». Posto che tutte le cose necessarie alla vita hanno un valore continuamente variabile a causa dell'«indole mutabile della Natura», ne consegue la inadeguatezza di queste ad esprimere l'idea di valore. Le difficoltà che incontrarono gli uomini quando all'inizio scelsero i capi di bestiame, per esprimere il valore delle cose, testimoniano molto bene questa inadeguatezza. Ben presto ci si rese conto che la maggior parte delle cose non riusciva a dare un'idea stabile di valore, vennero così scelti i metalli più preziosi, cioè i corpi «di meno sensibile variazione15 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 10.]».

La teoria del valore16 [Ci sembra molto importante sottolineare che Fabbrini è forse l'unico scrittore di questo periodo che, affrontando la teoria del valore, riconosce l'importanza del contributo di Bernardo Davanzati.] permette all'autore di giustificare la scelta esclusiva dei metalli preziosi e di costruire una teoria rigorosamente "metallistica", in base alla quale il valore della moneta viene identificato, fino a confondersi con quello dei metalli. La moneta viene infatti definita «un corpo naturale d'oro, d'argento, o di rame, di certo peso, e bontà, inventato dagli uomini per sapere il rapporto degli altri corpi tra loro medesimi, e per agevolare le permute di tutte le cose utili alla vita, o reali, o astratte, che infinitamente contribuisce ai comodi della vita, e tale si può chiamare, e divien corpo di commercio, o sia merce, quando si usa secondo la sua istituzione17 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 13.]».

Questa definizione implica che: a) solo determinati metalli possono essere monetati; b) la moneta possiede un suo valore naturale che non dipende dal conio, ritenuto solo una «qualità accidentale», come testimoniavano le vicende di alcune nazioni commercianti che usavano metalli senza apporvi alcun segno; c) l'uso della moneta non è nato da nessuno di «quei patti o convenzioni tacite, che servono alla fantasia, ed alla immaginazione18 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 14.]», ma è stato introdotto da «un uomo conoscitore dei particolari, ed universali interessi», imitato poi da tutti gli altri uomini; d) la moneta è particolarmente adatta a misurare il rapporto tra le merci oggetto di scambio, viene infatti definita terza comune proporzionale (il termine «proporzionale» non va inteso in senso matematico); e) la moneta è un «pegno avente valore reale» dato che è immediatamente convertibile con tutte le altre merci.

Le proprietà dei metalli li rendevano particolarmente adatti ad essere monetati giacché il loro valore non derivava, come avevano sostenuto autorevoli scrittori, tra cui Locke, dall'«arbitrio, e dalla fantasia dei mortali», ma si fondava su princìpi certi e determinati. Partendo dalla necessità di distinguere «lo stato primitivo dell'uman genere dallo stato culto e pulito in cui siamo, lo stato della rarità da quello della copia19 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 16.]», Fabbrini riesce a spiegare, attraverso i concetti utilità e di rarità, che il valore di alcuni metalli, come l'oro e l'argento, cresce con il livello di civilizzazione del genere umano, mentre quello di altri più vili, come il ferro, è molto alto solo nello stato primitivo.

Il valore, essendo «un effetto della reale disposizione delle cose», rendeva, come nessun altro corpo fisico, i metalli preziosi «una merce per eccellenza20 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 19.]», ed in riferimento agli usi monetari difficilmente sostituibili. L'utilizzo di «tessere», ad esempio, essendo queste soggette al deterioramento ed alla falsificazione, avrebbe provocato la alterazione di «tutta quanta la proporzione de' rapporti del commercio universale21 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 20.]» e la rovina dello Stato. Teoricamente sarebbe stato possibile introdurre, attraverso un accordo tra tutte le nazioni europee, moneta coniata con una sostanza diversa dai metalli preziosi ed assegnare ad essa un valore totalmente arbitrario, anche se la sua introduzione avrebbe creato innumerevoli problemi a causa del grande pericolo delle falsificazioni.

Ciononostante ritiene possibile «rappresentare» una «certa porzione di Moneta22 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 20.]» attraverso dei corpi non metallici, che all'inizio furono introdotti, limitatamente al commercio locale, per far fronte alla insufficienza di numerario, essendo questi inadatti al commercio con gli stati stranieri. Il giudizio dell'autore nei confronti di queste rappresentazioni non è affatto negativo; egli afferma infatti che tali rappresentazioni potevano essere utilizzate anche nei «casi di non necessità», per semplificare la contabilità ed evitare il trasporto dei metalli preziosi, come era avvenuto in Francia con il "Sistema" di Law, esperienza rivelatasi completamente fallimentare per la «poca temperanza nell'uso, o la malizia di che ne aveva il maneggio23 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 23.]» e per la «cattiva amministrazione che le procacciò quella sinistra fama, che la sua istituzione non meritava24 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 38.]».

L'attitudine della moneta a fornire la misura delle cose scambiate - una delle due funzioni fondamentali alle quali assolve - era possibile solo nel periodo in cui questa correva, giacché se si consideravano epoche remote risultava estremamente difficoltoso fornire una misura attendibile del valore delle monete per quel periodo. Un tentativo, afferma Fabbrini, è stato compiuto dall'Abate di Saint-Pierre il quale aveva pensato di «ragguagliare tutte le rendite antiche, e nuove a peso di metallo, che è quanto a dire marchi, & oncie25 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 25.]», sebbene, per le monete dei secoli passati non si avesse «né la certezza del peso, né la certezza del rapporto alla specie26 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 26.]». In riferimento all'altra funzione fondamentale chiamata di «surrogazione», la moneta si rivelava particolarmente adatta a quest'ufficio perché essa è un «pegno avente valore reale, come le altre mercanzie, con esse permutabile27 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 26.]».

Il valore intrinseco della moneta era la caratteristica che determinava sia la sua possibilità di esser scambiata con tutte le altre merci, che «l'equivalenza di una Moneta per l'altra28 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 41.]», permetteva cioè il confronto di monete aventi il medesimo conio, forma e nome, oppure forma, conio e nome diversi. La teoria "metallistica" o "dell'intrinseco", inoltre, era suffragata dalla storia «la quale ci insegna, che quelle barre, o lamine d'oro, e d'argento, che furono la prima Moneta degli uomini, tanto ebbero di momento di surrogazione alle altre cose, quanto aveano d'intrinseco pregio29 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 40.]», dall'autorità di molti scrittori, i quali avevano dimostrato che il valore del metallo dipende «dal travaglio dell'uomo, e dalla rarità di esso», ed infine dall'esperienza, la quale mostrava che il valore eccedente l'intrinseco, assegnato alla moneta, era necessariamente imposto dalla legge.

Il diritto che lo Stato aveva di coniare le monete e di indicarne il giusto valore derivava dalla sua funzione di procurare l'utilità dei sudditi. Questo potere scaturiva dalla difficoltà e dalla incertezza nella valutazione del peso e della bontà dei metalli preziosi, ed era stato istituito per «assicurare l'agevolezza, e la buona fede del commercio30 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 66.]». Il vantaggio del conio era dimostrato dall'esperienza della Cina dove, per effettuare i pagamenti, era necessario saggiare e pesare continuamente i metalli. La proporzione tra i metalli monetati doveva, infine, essere stabilita con una «certa determinata proporzione tra loro, al quale alcuni credono essere un terzo per sorta, altri più prudentemente doversi definire dalla loro proporzione di commercio congiunta agli usi ed alle convenienze del Paese31 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 66.]».

Anche la nozione quantitativa della moneta viene formulata in maniera abbastanza soddisfacente, infatti dopo aver premesso che «è interesse di un dato Popolo, che la quantità della Moneta, esistente in un dato Luogo, abbia un certo rapporto alla quantità delle mercanzie, cioè dei metalli, e degli altri soggetti del commercio32 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 74.]», egli afferma che «se la moneta cresce di quantità, le specie crescono di prezzo, se al contrario scemano per i principj sopra spiegati, e per l'opposto stando lei ferma, le specie alzano, o abbassano, se esse scemano, o crescono in quantità33 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., pp. 75-76.]».

Accanto alla nozione quantitativa è presente anche il concetto di "velocità di circolazione" della moneta, un contributo analitico molto importante alla teoria monetaria, e, se si tiene conto che il Discorso economico di Sallustio Bandini (l'opera in cui, come abbiamo visto, viene formulato per la prima volta nella storia del pensiero economico italiano il concetto di velocità), venne scritto nel 1737, ma pubblicato soltanto nel 1775, questo contributo acquista un valore ancora maggiore.

Per spiegare questo concetto Fabbrini afferma che la «somma dei corpi coniati34 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 74.]» è inferiore sia alla «somma dei corpi naturali comodi agli usi umani35 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 75.]», che al numero delle «permute» (dato che queste sono «un prodotto di multiplicazione del numero di essi corpi naturali36 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 80.]»); pertanto, se non si accrescerà la somma dei passaggi della moneta nelle diverse mani, i «corpi coniati» risulteranno insufficienti. L'accrescersi di questo «moto», che viene alimentato da tutti coloro che utilizzano le monete «colla semplice premura del proprio utile», contribuisce al benessere pubblico. Quando però la quantità di moneta («la somma dei corpi coniati») è «tanto minore» rispetto alle necessità del commercio, la circolazione «non può darle così velocemente il moto (come sarebbe necessario per servir di pegno a tutte le permute), allora ne nasce incaglio di commercio351 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 75.]» e gravi problemi per lo Stato. Allo stesso modo, siccome la quantità di moneta può variare anche in funzione della disponibilità di metalli preziosi, sarebbe dannoso emettere una quantità di moneta superiore a quella necessaria.

Compito di ogni governo è quello di mantenere il rapporto tra le monete coniate con metalli diversi (rapporto legale) in misura uguale al rapporto commerciale dei metalli stessi, tenendo conto, per quanto possibile, del loro valore sui mercati internazionali perché nessuno Stato può prescindere dal commercio; ribadisce poi che ogni sovrano deve adeguare «la somma Monetaria» alla «somma delle permute»; il mantenimento di un'offerta "ottima" di moneta è una questione tanto importante da esser definita il «fondamento del commercio361 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 80.]». Tale obiettivo non si raggiunge con i provvedimenti che proibiscono l'estrazione delle monete, ma con lo sviluppo delle attività industriali che provocano una bilancia commerciale favorevole ed il conseguente afflusso di moneta. L'analisi di questi problemi e le soluzioni trovate dallo scrittore toscano riflettevano la grave situazione economica in cui si trovava lo Stato Pontificio, caratterizzata da un secolare ristagno delle attività produttive e da una cronica insufficienza di numerario, che paralizzava la vita economica.

La dottrina "metallistica" o dell'intrinseco, che rappresenta il cardine della suo pensiero monetario, veniva avvalorata oltre che dalla «probità spontanea degli uomini», da un gran numero di scrittori come Locke, Mun, Du Tot, Davanzati, Bodin, Pufendorf e l'Abate di Saint-Pierre, i quali avevano ben confutato le idee di colui che da solo aveva creduto alla «chimera» delle manipolazioni: Melon.

L'esperienza, poi, contribuiva a confermare l'erroneità delle idee dello scrittore francese; accadeva infatti che quando il prìncipe esercita il diritto (che alcuni popoli avevano riscattato, con il pagamento di un tributo) di assegnare alle monete il valore «che più gli piace», all'inizio, queste monete sarebbero state accettate come buone ma, dopo un intervallo di tempo, che egli elegantemente definisce «stato dell'efficacia delle disposizioni politiche», i mercanti si sarebbero accorti dello «svantaggio» ed avrebbero assegnato alle monete il valore corrispondente all'intrinseco. Fabbrini giudica utilissimo, ma molto difficile da raggiungersi un accordo, che avrebbe imposto a tutte le nazioni l'obbligo di valutare le proprie monete in base all'intrinseco; accordo che avrebbe ottenuto il meraviglioso effetto di livellare i prezzi tra tutte le nazioni.

Come tutti gli scrittori di cose monetarie del suo tempo, anch'egli si occupò della «moneta immaginaria», identificata con quella di conto e definita «quella, che serve a dare idea del rapporto di valore fra le specie, o fra le Monete, e le Monete, o fra le Monete, e le specie, indipendentemente da ogni alterazione che uno o più governi facciano, o far possano nelle Monete reali37 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 93.]». Egli, anche se non raggiunge la completezza analitica di alcuni scrittori a lui contemporanei, come Broggia e Neri, ha il merito di sintetizzare in poche righe le funzioni principali della moneta immaginaria: quella di misura comune e soprattutto quella di «valore fisso». L'appellativo immaginaria dipende dal fatto che essa non esiste, è una «pura idea»; quest'idea è quella di un «valore fisso» usato come misura comune di tutte le monete, sottoposte continuamente ad alterazione. La funzione principale alla quale assolve è la semplificazione dei conti dato che venne infatti introdotta dai popoli che, abituati a contare con una determinata moneta, continuarono ad utilizzarla anche dopo che questa non era più in uso; tuttavia, alcune monete immaginarie vennero introdotte, senza un riferimento preciso ad una moneta realmente esistita, ma solo per comparare, attraverso una quantità fissa, il gran numero di monete esistenti.

Stabiliti i princìpi fondamentali della sua dottrina monetaria, Fabbrini cerca di risolvere il problema, che aveva posto all'inizio del libro, e cioè quello delle conseguenze di una mutazione monetaria sui rapporti di debito e credito; ovvero se a seguito di una mutazione monetaria deve essere favorito il debitore o il creditore e se quest'ultimo «può coll'interpretazione, colle cautele, col patto ovviare all'obbligo Civile, che egli ha di ricever Moneta eguale nel valore numerario38 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 94.]».

Partendo dal presupposto che gli atti con i quali il sovrano mutava le monete dovevano essere considerati delle vere e proprie leggi, cerca di dimostrare, attraverso una esposizione molto dettagliata di situazioni tratte soprattutto dalla giurisprudenza romana, come i princìpi che ispiravano queste leggi fossero in netto contrasto con il diritto naturale.

In base ai princìpi del diritto naturale ed ad alcuni «luoghi»39 [Ad esempio la L. 99 de Solution. Creditorem in cui si affermava che «non esse cogendum in aliam formam nummos accipere si ex ea re damnum aliquod passurus sit», legge che veniva intesa nel senso che «il creditore che ha dato per esempio Moneta Gallica, non è obbligato a ricevere la Germanica, qualunque volta ne risenta danno»; oppure la L. 24 de Pignoratitia actione di Ulpiano che affermava «Reproba pecunia non liberat solventem» (Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 101).] delle leggi romane, «manifestamente proporzionati alla ragione universale40 [Questa presa di posizione ricalca quella di Leibniz, il quale in una lettera ad Hobbes aveva affermato che il diritto romano era per due terzi formato di diritto naturale (O. Nuccio, Visite in soffitta: questioni e teorie ..., cit., p.13).]», egli conclude - coerentemente alle premesse poste nelle pagine del libro - che il debitore è tenuto a restituire moneta avente lo stesso valore intrinseco di quella data in prestito.

4. Le soluzioni di Belloni ai problemi monetari dello Stato Pontificio

Nella introduzione del libro di Giovannantonio Fabbrini, l'editore Niccolò Pagliarini elogiava la figura del banchiere Girolamo Belloni che, per le «molte cognizioni acquistate per mezzo di una lunga, ed accurata esperienza41 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., introduzione non paginata.]», era «più di ogni altro lontano dal pericolo di errare nel dar giudizio di somiglianti materie42 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., introduzione non paginata.]»; lo stesso editore auspicava, infine, la pubblicazione della sua Dissertazione sul commercio43 [Roma, Niccolò e Marco Pagliarini, 1750; la Dissertazione, insieme alla Lettera sopra la natura della moneta immaginaria, è stata ristampata da Pietro Custodi (Scrittori Classici Italiani di Economia Politica, parte moderna, vol. II, Milano, Destefanis, 1803, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1966).]. Il grande successo che ebbe quest'opera, immediatamente dopo la sua pubblicazione, alla fine del 1750, indusse Belloni a ristamparne numerose edizioni, sia in Italia che all'estero, con l'effetto che il più importante banchiere romano della metà del Settecento vide di gran lunga accresciuta la propria fama.

Nella Dissertazione gli stessi temi monetari, discussi dal dotto avvocato toscano, vengono affrontati «con minor finezza, ma con maggior aderenza alla realtà economica del periodo44 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 449.]». La conoscenza diretta della vita economica dell'epoca, acquisita sia come pubblico amministratore, che come mercante banchiere, permetteva a Belloni di formulare una diagnosi puntuale della disastrosa situazione economica e monetaria dello Stato Pontificio e di individuare i possibili rimedi.

Dal punto di vista monetario il male che, ormai da lungo tempo, affliggeva lo Stato della Chiesa era l'insufficienza di numerario che aveva effetti paralizzanti su tutte le attività economiche. Netta è la condanna di ogni misura di carattere coercitivo attuata per fronteggiare la scarsità della moneta: i divieti di esportazione, come gli alzamenti non facevano altro che aggravare la situazione. Belloni riteneva indispensabile agire sulle cause di carattere reale dei problemi, prima fra tutte, lo squilibrio della bilancia commerciale.

Le sue misure erano ispirate alla stabilità monetaria ed alla condanna di qualsiasi atto dell'autorità che mirasse ad alterare il valore delle monete rispetto al valore dei metalli preziosi. Egli, metallista convinto, era persuaso infatti che il valore, e quindi il rapporto, dell'oro e dell'argento venisse fissato dai mercati europei, e che il prezzo delle monete si dovesse adeguare a questo rapporto ritenuto anche da lui di fondamentale importanza per la stabilità del sistema monetario.

5. La pubblicazione del De monetis Italiæ

A Milano nel 1750 l'editore bolognese Filippo Argelati iniziò la pubblicazione del De monetis Italiæ45 [Il titolo completo è: De monetis Italiæ. Variorum illustrium virorum Dissertaziones, quarum pars nunc primùm in lucem prodit, Philippus Argelatus Bononiensis, Mediolani, MDCCL (partes I, II, III), MDCCLII (pars IV), in Regia Curia in Ædibus Palatinis [Società Palatina]; ristampa anastatica Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1980 (parte I), 1981 (parte II), 1982 (parte III), 1983 (parte IV).], un'opera che senza dubbio è la testimonianza più importante del peso in questi anni assunto dalle problematiche economico-monetarie; quest'ambizioso progetto, che «accoglie non solo dissertazioni di carattere numismatico, ma anche metrologiche, con ottime tavole di ragguaglio e documenti pubblici sulla attività delle zecche italiane46 [I. Zicàri, Filippo Argelati, in Dizionario Biografico degli Italiani, sub voce (p. 113), vol. 4, Roma, 1962.]», dimostra come le tematiche monetarie avessero ormai attirato l'attenzione di un gran numero di scrittori, che non si limitavano più ad affrontare solo gli aspetti giuridici di simili problemi.

Il contributo di Argelati fu soprattutto di carattere compilatorio, egli si limitò infatti a riportare una serie di monete milanesi ed alcune notizie su alcune monete italiane. Le opere presenti nel De monetis Italiæ venivano inserite nella raccolta man mano che l'autore ne veniva in possesso, senza un preciso ordine né logico, né cronologico. A tale riguardo è molto significativo il commento della Storia letteraria d'Italia, dove si legge che l'editore milanese «s'indusse a scegliere alcuni di questi Scrittori o più rari o più magistrali, e massimamente non più stampati. Il perché niuno dee muovergli lite, che molti di costoro egli abbia lasciati; spezialmete che immensa sarebbe una raccolta di tutti; tanto n'è il numero47 [Storia letteraria d'Italia, volume VI, Modena, 1754, p. 189.]».

La pubblicazione di un opera così imponente veniva presentata dallo stesso Argelati che «si lamentava dei turbamenti monetari, dell'instabilità dei prezzi, che rendevano difficile il commercio con gli altri paesi e che avevano portato spesso a dei rimedi peggiori del male. Era naturale perciò, diceva, che nelle piazze e nelle case variamente si discutesse di simili problemi. Molto pure se ne scriveva. Eppure la materia monetaria restava poco conosciuta e intesa. Lo scopo suo era dunque altrettanto pratico quanto storico48 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 465.]».

La collezione si apre con due dissertazioni di Ludovico Antonio Muratori49 [De Moneta, sive Jure cudendi Nummos, in De monetis Italiæ, cit., pars I, pag. 1; De diversis pecuniæ generibus, quæ apud veteribus in usu fuere, Ibidem, pars I, pag. 99.], la seconda delle quali era una vera e propria ricerca sulla svalutazione della lira attraverso i secoli, e sul ruolo che le importazioni di metalli dalle Americhe avevano avuto su questa svalutazione.

All'opera di Muratori, considerato una vera e propria autorità nel campo delle ricerche storico-erudite, si erano ispirati la maggior parte degli scrittori50 [Bernardo Maria de Rossi, De Nummis Patriarcharum Aquilejensium, in De monetis Italiæ, cit., pars I, pag. 137; Giovanni Brunati, De re Nummaria Patavinorum, Ibidem, pars I, pag. 215; Fernando Schiavini, Observationes in Venetos Nummos, Ibidem, pars I, pag. 267; Giovanni Sitoni, Elucubratio de antiquis, & modernis in Insubria Monetis, Ibidem, pars II, pag. 1; Giuseppe Liruti di Villafredda, Della Moneta propria e, forestiera, che ebbe corso nel Ducato del Friuli, dalla decadenza dell'Imperio Romano sino al secolo XV, Ibidem, pars II, pag. 71.], le cui opere sono comprese nei primi volumi del De monetis Italiæ, in cui compaiono molte dissertazioni, che potrebbero sembrare elenchi di antiche monete e che invece molto spesso si rilevano vere e proprie storie dei prezzi. Il veronese Pietro Zagata51 [Osservazioni sopra le lire e le monete veronesi, pars II, in De monetis Italiæ, cit., pag. 43.], ad esempio, discutendo dell'aumento dei prezzi, arriva alla conclusione che l'aumento delle importazioni di metalli preziosi dall'America oltre ad alterare la proporzione tra il valore dei metalli preziosi aveva provocato un aumento di circolante con effetti stimolanti per l'economia europea.

All'inizio della parte terza della raccolta, Argelati incluse anche uno scritto minore di Geminiano Montanari già allora ritenuto fondamentale per il pensiero monetario. Il Trattato del valore delle monete in tutti gli stati52 [Trattato del valore delle monete in tutti gli stati, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 1.] era un primo abbozzo dell'opera più importante del Modenese e conteneva i tratti fondamentali delle sue idee monetarie. Di questo volume, che si chiudeva con alcune pagine tratte dalla Dissertazione sul commercio53 [Excerpta e Dissertatione Marchionis Hieronymi Belloni de Commercio, Romæ edita Anno MDCCL, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 139.] di Belloni e con un ragionamento di Girolamo Zanetti sulla antichità della moneta veneziana54 [Dell'origine, ed Antichità della moneta viniziana. Ragionamento, in De monetis Italiæ, cit., appendix ad partem tertiam, pag. 1.], è degna di esser menzionata la memoria di Anonimo Milanese55 [Il breve scritto è diviso in due parti la prima intitolata Selva di massime che hanno servito di fondamento alla idea di Sistema delle Monete, mentre la seconda nella quale vengono descritti gli effetti delle alterazioni monetarie è intitolata Problema se meglio sia accrescere il prezzo della moneta oppure minorarla in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 77.] scritta nel 1750; in essa si giunge alle fondamentali conclusioni che l'aumento dei prezzi aveva privilegiato esclusivamente le classi più agiate e che a seguito di un alzamento della moneta il debitore veniva ingiustamente favorito a scapito del creditore.

Argelati, che continuava ad escludere dal suo lavoro tutte le numerose opere di carattere giuridico, inserì nella parte quarta del De monetis Italiæ, che venne pubblicata nel 1752, gli scritti di Bernardo Davanzati e di Gasparo Scaruffi56 [Lezione delle monete, in De monetis Italiæ, cit., pars quarta, pag. 157; L'Alitinolfo di M. Gasparo Scaruffi per fare ragione e concordanza etc., Ibidem, pars quarta, pag. 169.] considerati dei classici del pensiero monetario già nel Settecento.

6. Il Trattato delle monete di Ignazio Tadisi

Nella parte seconda di questa silloge era compreso il Trattato delle monete scritto dal religioso somasco Ignazio Tadisi, del quale abbiamo già accennato affrontando l'argomento della moneta ideale. Lo scritto in questione prosegue con l'analisi del problema del valore delle monete; valore che è «di due sorte; l'uno intrinseco, e l'altro estrinseco».

Il valore intrinseco «consiste nella qualità del metallo, di cui sono composte [le monete], e nella quantità, che le compone», tenendo conto che il valore di una determinata qualità di metallo (ad esempio l'oro) dipende, oltre che dalla sua finezza, soprattutto dalla quantità disponibile sui mercati rispetto all'altra (l'argento). L'aumento delle importazioni di metalli aveva provocato lo svilimento di questi metalli, prima più scarsi e «in istima maggiore, e in conseguenza ancor le Monete, e perciò con molto più di nostre mercatanzie si comperavano. Ma ora che sono fatti più abbondanti, con minori mercatanzie si comperano o si commutano57 [Trattato delle monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 200.]».

Quest'ultima proposizione è molto importante per comprendere la posizione dell'autore: il valore della moneta è riconducibile esclusivamente dalla qualità e quantità di metallo prezioso in essa contenuto e di conseguenza è il valore dei metalli preziosi, ovvero la maggiore o minore disponibilità di essi che determina il valore della moneta in rapporto alle altre merci.

Il valore estrinseco, «legale, e impositizio», al contrario di quello estrinseco, non aveva alcuna funzione sulla determinazione del prezzo delle monete, esso «consiste in quella estimazione, nella quale il Principe pone le Monete, e nella quale le vuole l'arbitrio del Popolo. Per dare questa stima alle Monete si sono usati i vocaboli, e si usano ancora di Lira, Soldo, Danaro, i quali servono come misura di quella stima, in cui si debbono avere le Monete almeno nel comune Commercio58 [Trattato delle monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 200.]».

Una parte molto importante del Trattato è sicuramente quella che include una serie di notizie concernenti le specie e le valutazioni delle monete ed il peso da esse assunto nel corso dei secoli. Tali notizie, che da frammentarie per i primi secoli presi in esame (XII-XV) divengono più dettagliate man mano che l'autore si avvicina al secolo in cui visse, non riguardano solo le monete, ma comprendono ragguagli molto importanti dei prezzi delle merci al fine di determinare il valore delle monete nei secoli, in riferimento alla loro capacità di acquisto.

La descrizione degli effetti delle importazioni di metalli preziosi è una parte molto importante dello scritto del religioso cremonese il quale sostiene innanzitutto che le conseguenze dell'aumento effettivo della disponibilità di tali metalli si verificarono, in Italia, soltanto a partire dalla seconda metà del XVII secolo. Fino a quel momento, infatti, i prezzi delle merci rimasero relativamente bassi e la penuria di circolante continuò ad assillare le città lombarde. La prova sicura della aumentata disponibilità di metalli era offerta, almeno per quello che riguarda l'argento, dal prezzo di alcune monete: due ducatoni di Milano, ad esempio, nel 1583 valevano quanto una doppia di Spagna, mentre cent'anni dopo per acquistare la stessa moneta spagnola erano necessari tre ducatoni.

Lo scrittore lombardo rileva a questo punto che nonostante fosse stata introdotta una grande quantità di oro - ma lo stesso discorso poteva valere per l'argento - «la valuta delle Monete è stata alzata molto più di quanto l'oro era più raro e più scarso». La valuta dello zecchino, ad esempio, espressa in lire, era aumentata da lire 7 del 1583 fino a lire 13 e soldi 5 del 1683 senza proporzione rispetto all'aumentata disponibilità di metalli in quel secolo.

Tutto ciò destava «stupore» giacché «essendo più abbondato l'oro, avesse dovuto avere minor prezzo, ed in conseguenza ancor le monete dovessero essere men valutate. Se ogni altra cosa, quanto più abbonda, tanto più vale meno, come dunque, quanto più abbonda il danajo, si fa valere di più?59 [Trattato delle monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 210.]».

La spiegazione dell'equivoco significato assunto dalla parola «Valere» poteva aiutare a risolvere questo paradosso. Era innanzitutto necessario distinguere la valuta dal valore: la prima era una «estrinseca denominazione, che serve sol di misura, o di un modo di parlare, in cui debbono convenire i Contraenti per accordare i Contratti, e le commutazioni fra roba e danajo60 [Trattato delle monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 210.]»; mentre «l'intrinseco pregio, o preziosità, che hanno le cose» andava ricondotta esclusivamente al secondo.

Per questi motivi «Valere significa costare»; nel caso delle monete era impensabile che le lire potessero esprimere il valore, esse non comperavano le monete, erano soltanto «idee generiche, sotto di cui, e in cui debbono convenire due cose, cioè il danajo, e la roba». Nel caso di un cappello, ad esempio, si diceva che valeva 7 lire e poteva essere acquistato con una moneta chiamata filippo, ossia con una determinata quantità d'argento coniato. Le lire in questione non erano né il valore dell'argento, né quello del filippo, esse erano «la sola idea, o bilancia, o misura giusta dell'uno o dell'altro».

Quest'ultima considerazione, ma non solo questa, dimostra come egli avesse individuato in modo chiaro i meccanismi di funzionamento del sistema monetario nei secoli che vanno da Carlomagno al suo, ed in particolare una caratteristica molto importante, della quale ha parlato Luigi Einaudi, cioè che «tre erano le unità da vincolare: l'unità monetaria immaginaria (lira), l'unità monetaria reale ad esempio scudo [il filippo nel nostro caso] e l'unità di bene economico -ad esempio chilogrammo di pane [il cappello nel nostro caso]-; e tre i vincoli o rapporti: lira a merce, lira a scudo e scudo con merce61 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 247.]».

Il prezzo della moneta andava esclusivamente ricondotto alla quantità di merci che essa era in grado di acquistare, il suo valore si poteva dire aumentato solo nel caso in cui, anche a fronte di un aumento della sua disponibilità (di metalli preziosi), si sarebbe verificato un aumento della sua capacità di acquisto. Ma siccome accadeva il contrario, ovvero che in seguito all'aumento della quantità di moneta la sua capacità di acquisto in rapporto alle altre merci diminuiva, si poteva affermare che il suo valore era diminuito.

La conclusione era quindi che «l'accrescimento delle Monete in valuta, se non è cagione, è però segno evidente, ovvero effetto del decrescimento in valore di quel metallo di cui sono composte62 [Trattato delle monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., pars III, pag. 210.]»; il valore di uno scudo d'oro, con il quale, fino all'aumento massiccio delle importazioni dall'America, si potevano comprare quattro sacchi di frumento, era diminuito benché la sua valuta fosse aumentata; ciò era dimostrato dal fatto che dalla seconda meta del secolo XVII con esso si poteva acquistare un solo sacco di frumento.

I confronti più interessanti effettuati da Tadisi erano quelli che interessavano i periodi di tempo a lui più vicini e cioè tra il XVII ed il XVIII secolo; i dati raccolti per questo intervallo di tempo erano abbastanza dettagliati, pertanto si potevano trarre conclusioni più sicure sugli effetti del continuo aumento dei prezzi delle merci che aveva creato una situazione per molti insostenibile.

Alle grida del 1723, che avevano alzato la valuta legale delle monete si erano aggiunte le alterazioni causate dal popolo «avido, ma ignorante», con il risultato del continuo e generalizzato aumento dei prezzi e «col danno di tutti que' tali che hanno le loro entrate e di quegli operai e serventi che hanno le lor mercedi, le giornate e i salari fissi in lire». Tra questi erano comprese «la maggior parte delle Famiglie Regolari, Chericali, e Secolari», di cui egli faceva parte, per le quali «il Secolo XVII, è stato fatale».

Il rilevamento della differenza tra i prezzi delle merci nei secoli XVII e XVIII era stata effettuato con l'utilizzo dei dati raccolti nel giornale delle spese della comunità regolare in cui viveva e la scelta delle merci non era avvenuta casualmente; egli aveva inserito quelle più rappresentative («dalle quali si può congietturare dell'altre») ed aveva realizzato un paniere di beni, simile a quelli che oggi vengono utilizzati per costruire i numeri indice.

Dal confronto scaturiva che i prezzi delle merci erano in media aumentati del doppio durante un secolo, con il pregiudizio di tutti coloro che riscuotevano redditi fissi. Pregiudizio che era dimostrabile con il fatto che nel seicento «chi riceveva lir. 7. 10 riceveva un Filippo. Chi riceve oggidì li. 7. 10 riceve solamente un mezzo Filippo con 5 soldi di più, perchè il Filippo corre a lir. 17. 10».

L'aumento del prezzo della moneta reale era estremamente lesivo per gli interessi di coloro che percepivano rendite fondate cento anni prima. Questa situazione anomala si sarebbe potuta evitare solo nel caso in cui la rendita percepita fosse stata ragguagliata alla moneta reale (in questo caso il filippo). A questo si aggiungeva l'aumento del prezzo delle merci: il creditore di una rendita, oltre a percepire un reddito proporzionalmente inferiore alla svalutazione della lira, acquistava le merci con un aumento proporzionale della stessa misura. Effetti che il religioso, utilizzando termini scolastici, chiamava rispettivamente «lucro cessante» e «danno emergente».

7. Pompeo Neri e il tentativo di accordo monetario tra la Lombardia e il Piemonte

L'editore milanese morì prima di aver portato a termine il suo ambizioso progetto, terminato da Carlo Casanova che nel 1759 pubblicò le parti quinta e sesta del De monetis Italiæ63 [Carlo Casanova, In Philippi Argelati Tractatus De Monetis Italiæ Appendix, seu De Monetis Italiæ, partes V-VI, Milano, in Regia Curia in Ædibus Palatinis [Società Palatina], 1759, ristampa anastatica Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1984 (parte V), 1985 (parte VI).]. Queste contenevano La Zecca in Consulta di Stato64 [De monetis Italiæ, cit., pars sexta, pag. 1.], versione più ampia e dettagliata del precedente trattato di Montanari, e due scritti di Pompeo Neri: Le Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete65 [Osservazioni sopra il Saggio, Conio, e Valore delle Monete del Chiarissimo Sig. Abate Pompeo Neri, in De monetis Italiæ, cit., pars quinta, pag. 89.] e una memoria inedita dello stesso autore presentata in forma di Appendice66 [Appendice dello stesso autore, in De monetis Italiæ, cit., pars quinta, pag. 147.].

Per realizzare l'ambizioso progetto di riforme, nel quale era compreso pure il riordino del sistema monetario, il governo austriaco si valse della collaborazione degli uomini più capaci. Pompeo Neri fu chiamato dalla Toscana a presiedere la giunta per il censimento catastale, che fu «giudicato dai più competenti fra i contemporanei, anche stranieri, come l'opera più perfetta di tal genere che sia stata compiuta nel secolo XVIII67 [G. Luzzatto, Storia economica dell'età moderna e contemporanea, parte seconda, Padova, CEDAM, 1960, p.162.]». Nonostante questo importantissimo incarico ebbe l'occasione di dare il suo apporto decisivo alla risoluzione dei problemi monetari, contributo ritenuto fondamentale per giungere alla comprensione delle vicende monetarie italiane del XVIII secolo.

Le Osservazioni vennero pubblicate in occasione del tentativo di intesa monetaria fatto in quel periodo dai governi della Lombardia e del Piemonte; attraverso quest'accordo si sarebbe dovuto stabilire, oltre ad una tariffa comune del valore delle monete che circolavano nei due Stati, l'entità del rapporto legale tra l'oro e l'argento. Lo scrittore toscano, cercò, con «la sua competenza e la sua superiorità tecnica», di convincere i delegati incaricati delle trattative dell'importanza assunta dal rapporto legale oro-argento, che andava fissato ad un livello tale da scoraggiare le manovre speculative ed evitare la rarefazione del numerario, male cronico degli stati italiani.

L'accordo monetario non fu mai raggiunto, perché gli interessi particolari ebbero il sopravvento, ma le idee monetarie del riformatore toscano non mutarono; egli continuò infatti ad insistere sulla necessità di raggiungere una intesa tra gli Stati italiani in materia di monete.

Le discussioni che si svolsero in quegli anni contribuirono comunque a fare luce su un problema che si rivelava estremamente complicato non solo dal punto di vista tecnico e le Osservazioni del presidente Neri rappresentarono «un raggio di chiara luce68 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 474.]» in grado di penetrare la buia realtà monetaria.

Così come aveva fatto Broggia, Pompeo Neri chiarisce all'inizio del suo trattato quanto siano equivoci termini come «alzamento» e «diminuzione» che avevano un significato opposto a quello che comunemente loro si attribuiva. Metallista intransigente, commentando il famoso passo del giurista romano Giulio Paolo, Neri precisa che tutte le interpretazioni, diverse da quantità di materia del termine «quantitas» erano errate perché «l'immaginare una quantità che non abbia che far niente con la materia per collocare in questa quantità numerica astratta da ogni corpo tutti gli uffici della moneta, mi pare che sia un pensare così lontano dal senso comune69 [Pompeo Neri, Appendice alle Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete e la difficoltà di prefinirlo e sostenerlo. Presentate a S. Ecc. il Sig. Conte Gian-Luca Pallavicini, ecc. Milano, Malatesta, 1751, in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte antica, vol. VI, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965, pp. 336-337.]».

La parte più rilevante delle Osservazioni è, come abbiamo visto nel capitolo primo, quella dedicata all'esame della moneta immaginaria; tale analisi rappresenta la base teorica sulla quale Neri costruisce il suo progetto di riforma monetaria. Dopo aver sottolineato che gran parte degli squilibri esistenti nasceva da una continua degradazione del valore della «moneta immaginaria corrente», egli aveva mostrato come questo processo fosse la causa più importante della alterazione della proporzione del valore legale dei metalli preziosi e della conseguente fuoriuscita delle monete.

Per ovviare a questi gravissimi inconvenienti era innanzitutto necessario eliminare il sistema delle grida attraverso il quale si valutavano, con riferimento alla moneta di conto, tutte le altre monete; in primo luogo perché questo sistema era troppo lento ad adattare il rapporto legale tra le monete al rapporto commerciale tra i metalli, ma anche perché si prestava troppo facilmente gli abusi che di esso ne facevano i sovrani. Occorreva, quindi «stabilire un prezzo alle monete con efficace risoluzione che serva di regola costante a misurare il valore di esse70 [Pompeo Neri, Appendice alle Osservazioni..., vol. VI., cit., p. 225.]»; questo "prezzo costante" (simile al «prezzo di voce» di Galiani), secondo il riformatore toscano, si sarebbe dovuto stabilire attraverso il continuo riferimento ad una moneta immaginaria assimilabile a quella che egli aveva chiamato «moneta immaginaria di banco».

Questa moneta, che veniva identificata con una quantità invariabile di metallo, avrebbe costituito il punto di partenza di tutti gli ulteriori miglioramenti del sistema monetario e di tutti gli accordi in materia di monete tra i vari Stati accordo, a cui mirava tutta la sua opera di riformatore. Egli riteneva infatti fondamentale - lo ripetiamo ancora una volta - fissare un rapporto oro-argento valido per tutti gli Stati italiani, che riflettesse il rapporto commerciale dei metalli al fine di evitare le periodiche fuoriuscite delle monete che risultavano sottovalutate.

8. Ricerche storiche e progetti di riforma nei trattati monetari di Gian Rinaldo Carli

Alla soluzione dei gravissimi problemi monetari, contribuì anche l'istriano Gianrinaldo Carli che nel 1765 fu chiamato dal governo austriaco a Milano per presiedere il Supremo Real consiglio di Economia pubblica incaricato anche di mettere a punto la riforma delle monete71 [A questo proposito vedi La riforma monetaria in Lombardia nella seconda metà del '700 a cura di C. A. Vianello, in «Annali di economia», vol. XIII, n. 2, Milano, Università commerciale Luigi Bocconi, 1939.]. La scelta del governo austriaco era motivata dalla competenza che Carli aveva su questo tema specifico, avendo già pubblicato, tra il 1751 ed il 1760, scritti importantissimi. Il trattato con il quale iniziò ad occuparsi di questioni monetarie, Dell'origine e del commercio della moneta e dell'istituzione delle zecche d'Italia sino al secolo decimosettimo72 [Pubblicato all'Haja (Venezia) nel 1751 probabilmente da Pasquali.], venne poi riprodotto nella sua monumentale opera di carattere storico-erudito intitolata Delle monete e dell'istituzione delle zecche d'Italia dell'antico e presente sistema d'esse e del loro intrinseco valore e rapporto con la presente moneta sino al secolo XVIII per utile delle pubbliche e delle private ragioni. Dissertazioni del Conte Gianrinaldo Carli73 [Il tomo I venne pubblicato a Mantova nel 1754 da Rubbi; l'opera si compone di otto dissertazioni; la prima, parte della sesta e la settima furono ripubblicate da Pietro Custodi insieme ad altri scritti economici dell'autore nei voll. XIII e XIV, parte moderna della raccolta Scrittori Classici Italiani di Economia Politica, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1966.].

L'opera di Carli appare come «un tentativo, mai prima intrapreso, di far conoscere tutto ciò che attineva alle monete dei numerosi Stati della Penisola, cercando di fissare scientificamente i ragguagli tra le monete di uno stesso Stato e quelle di Stati diversi, e tra le monete di tempi diversi74 [O. Nuccio, Gianrinaldo Carli, Appendice al vol. XIV, parte moderna, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], ristampa anastatica, Roma, Bizzarri, 1966, p. XXVIII.]». Le tavole così ottenute, mostravano come le alterazioni arbitrarie, operate dai prìncipi avessero deteriorato la situazione monetaria e di conseguenza avessero provocato il disordine e lo stallo dell'economia.

Anch'egli, metallista convinto, riteneva innanzitutto necessario dimostrare come nessun governo avesse l'autorità di manipolare la moneta il cui valore era determinato esclusivamente dal metallo in essa contenuto; per questo cerca «nella storia antica e moderna gli esempi di alterazioni fatte alle monete e ne studia e spiega gli effetti negativi75 [O. Nuccio, Gianrinaldo Carli, Appendice ..., cit., p. XXXVIII.]». La ricerca storica viene quindi utilizzata per dimostrare che l'alterazione arbitraria delle monete era un fatto deprecabile, e che poteva essere effettuata soltanto nel caso in cui uno stato vivesse completamente separato dagli altri.

Come si evince dal titolo, l'opera aveva una finalità riformatrice, «l'erudizione sboccava nella economia politica e nella volontà di riforma76 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 457.]». Una volta calcolata la sproporzione esistente tra le monete era indispensabile che tutti gli Stati italiani, attraverso una radicale riforma correggessero questa sproporzione. In tale modo avrebbero eliminato l'impedimento principale del commercio e dello sviluppo economico.

9. La polemica Carli-De Magistris

Per dimostrare gli effetti negativi delle alterazioni monetarie, Carli aveva addotto l'esempio di Roma che «render deve avvertiti assai più di qualunque teoria77 [Delle monete e dell'istituzione, Diss. I, cit., p. 181.]»; lo Stato della Chiesa, stando alla puntuale ricostruzione storica dell'Istriano, per sopperire alla mancanza di numerario aveva sempre fatto ricorso al peggioramento delle monete con il risultato di aggravare la situazione («Il precipizio però di questo gran male, è colà arrivato dal rimedio apprestato78 [Delle monete e dell'istituzione, Diss. I, cit., p. 181.]»).

Questa netta presa di posizione provocò la violenta risposta79 [Franco Venturi ha definito la risposta di De Magistris alle constatazioni di Carli «curiosa e rivelatrice»; inoltre, lo scrittore romano costituisce secondo l'autorevole storico un «bell'esempio di fede nei miracoli economici» (Settecento riformatore, cit., p. 461) in quanto afferma, forse con troppa fiducia, che «ben presto vedremo cangiar di aspetto le cose, e il passivo Commercio in Roma rimaner di gran lunga dietro all'attivo» [Delle osservazioni sopra un libro intitolato Dell'origine e del commercio della moneta e dell'instituzione delle zecche d'Italia, all'Haja 1751, in quanto appartiene alla Zecca pontificia e a Roma libri tre, Roma, nella stamperia di Angelo Rotilj e Filippo Bacchelli, 1752, Introduzione, p. xv].] dello scrittore romano Simone Maria De Magistris (1728-1802), che nel 1752 pubblicò uno scritto con il titolo Delle osservazioni sopra un libro intitolato Dell'origine e del commercio della moneta e dell'instituzione delle zecche d'Italia, all'Haja 1751, in quanto appartiene alla Zecca pontificia e a Roma libri tre.

La ricerca intorno all'argomento delle monete, precisa lo scrittore romano, era di gran lunga superiore alle altre «fatte a giovamento della Repubblica»; le difficoltà che presentava tale studio, anche «nelle [età] più culte, conosciuto appena in qualche sua parte», stavano per essere superate proprio in quegli anni quando era stato «da Uomini esperti e di talento colle loro fatiche illustrato, e in forma di vera scienza ridotto80 [Simone Maria De Magistris, Delle Osservazioni..., cit., Introduzione, p. v.]». Per questo non riusciva a comprendere come mai l'opera Carli «si fingesse divulgata co' Torchi stranieri, quasi che ripudiata fosse dal suol natìo81 [Simone Maria De Magistris, Delle Osservazioni..., cit., Introduzione, p. vii.]».

L'autore «in un'ottica rigidamente filocuriale e tutta interna a una erudizione storico-ecclesiastica in funzione di difesa politica della S. Sede82 [M. Caffiero, Simone De Magistris, in Dizionario Biografico degli Italiani, sub voce (p. 428), vol.38, Roma, Isituto dell'Enciclopedia Italiana, 1990.]», sostiene che Carli era responsabile di «insultare a Roma, Roma il cui nome solo è stato sempre oggetto di meraviglia, e di venerazione proposta ora per esempio di miseria, se non di ludibrio alle Nazioni tutte del Mondo83 [Simone Maria De Magistris, Delle Osservazioni..., cit., Introduzione, p. vii.]».

L'Istriano, a suo parere, «inconsideratamente» aveva confuso l'alterazione delle monete con l'introduzione di «una spezie di Moneta composta» (la moneta di biglione); l'uso di quest'ultima era legittimato sia dalla dottrina di autorevoli scrittori, primo fra tutti «un Moderno avvedutissimo autore» (si riferisce a Galiani, il cui pensiero veniva frainteso), sia dagli effetti provocati: l'introduzione di questa moneta aveva fatto si che la «pregiatissima Papal moneta» non fosse più un'occasione di guadagno per gli speculatori.

Attraverso l'introduzione di questa moneta, i Pontefici erano riusciti a debellare la carenza di numerario che da lungo tempo affligeva lo Stato della Chiesa. Non bisognava nemmeno temere, affermava De Magistris, che questa nuova moneta potesse arrecare «detrimento al commercio», perché è sufficiente che il principe «contenti i Forestieri con buone monete d'oro», le uniche che devono essere preservate dalle alterazioni monetarie, dato che ciascun sovrano può arbitrare «quanto voglia su le altre monete [purché conservi la proporzione de' metalli]84 [Simone Maria De Magistris, Delle Osservazioni..., cit., Introduzione, p. xi.]».

De Magistris proseguì la polemica, ricordando quanto l'immagine di Roma venisse distorta dai pregiudizi di scrittori, come Carli che l'aveva rappresentata «piena di rame, e di carta», e Galiani che, benché stimato dal Nostro Autore, aveva sottolineato più volte lo stato di degrado e di abbandono delle campagne della città, dimostrato dall'«abbondanza de' Latticinj, de' Carcioffi, e della Cacciagione85 [Ferdinando Galiani, Della Moneta, cit., p. 105.]».

L'obiettivo politico ed apologetico del suo libro veniva svelato quando dalle questioni monetarie e dal problema della datazione della Zecca «passava a confutare le tesi che Carli, sulla scorta del Muratori, aveva avanzato sull'origine della sovranità temporale dei papi86 [M. Caffiero, Simone De Magistris, cit., p. 428.]», per rafforzare le tesi sull'antichità e sull'autonomia dello Stato Pontificio.

 
 
 
 
 

 
 

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