CAPITOLO II

L'evoluzione delle dottrine monetarie da Innocenzo III a Innocenzo XIII

1. Premessa

I contributi che la storiografia tradizionale1 [Vedi per esempio: É. Bridey, La théorie de la monnaie au XIVe siècle: Nicole Oresmie, Paris, Giard et Brière, 1906; P. Vilar, Oro e moneta nella storia 1450-1920, trad. ital., Bari, Laterza, 1971 (riferimenti bibliografici tratti da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, vol. 1., Sassari, Gallizzi, tomo primo 1984, tomo secondo 1985, tomo terzo 1987, vol. 2, tomo primo 1991, tomo secondo 1992). Esistono inoltre grandissime difficoltà per quello che riguarda la storia monetaria, Marc Bloch a questo proposito ha scritto che «l'histoire économique de la monnaie reste encore presque toute entière une page blanche» (Le probleme de la monnaie de compte, in: «Annales d'histoire economique et sociale», cit., p. 358).] ha messo in luce per analizzare la vasta letteratura monetaria che va dal 1200 al 1700 sono paradossalmente i meno significativi. L'esempio più eloquente è costituito dall'opera di Nicola Oresme. Il trattato2 [De origine, natura, jure nec non de mutationibus monetarum, la data del trattato di Oresme è incerta, il Wolosky la pone al 1373, mentre il Bridey fra il 1355 e il 1358 (notizie bibliografiche tratte da: P. Jannaccone, Moneta e lavoro, Torino, UTET, 1946, p. 37).] scritto dal vescovo di Lisieux viene considerato da molti storici del pensiero economico come l'«epicentro» di tutta la letteratura monetaria prodotta nell'età intermedia. Questa interpretazione ha tenuto conto solo parzialmente (o non ha tenuto conto affatto) che questioni come l'origine e la natura delle monete e il loro svilimento, erano state già trattate con competenza dai giuristi italiani almeno duecento anni prima del teologo francese.

Lo studio dell'opera dei giuristi permette di portare alla luce elementi preziosi per interpretare una problematica tanto articolata come è quella del secolare dibattito monetario e di stabilire il punto dal quale partirono la maggior parte degli autori che, fino a tutto il Settecento, si occuparono di questioni monetarie, perché, come abbiamo visto, la circolazione prevalentemente metallica fu la caratteristica comune dei sistemi monetari del periodo in questione, e pertanto comuni furono i termini del dibattito.

2. Le fonti giusromanistiche delle teorie monetarie medioevali

Il diritto romano fu la fonte alla quale furono attinti gli elementi necessari a risolvere questioni delicate come quelle che il disordine monetario produceva alla vita economica e sociale. Il problema che si presentò con maggiore frequenza fu quello di quantificare la restituzione di una obbligazione pecuniaria, a seguito di una alterazione monetaria. Per i giuristi romani, che trattavano del mutuo in generale, il debitore era tenuto a restituire beni dello stesso genere e della stessa qualità di quelli ricevuti; un problema di non facile soluzione sorgeva quando il bene in questione era il bene moneta e se al momento della restituzione era intervenuta una variazione nel valore di quest'ultima. A questo proposito la dottrina giusromanistica stabiliva che in caso di mutuo pecuniario potevano essere restituite monete di una specie diversa da quella ricevuta in prestito, aventi corso legale e soprattutto lo stesso valore.

Il passo che venne maggiormente citato fu un frammento della legge «Origo» del giurista romano Giulio Paolo (III sec. d. C.); esso, che per l'importanza che ricoprì nelle trattazioni monetarie fu utilizzato fino a tutto il '700, diceva testualmente: «electa materia, cuius publica ac perpetua æstimatio difficultatibus permutationum æqualitate quantitatis subveniret: eaque materia, forma publica percussa, usum dominiumque non tam ex substantia præbet, quam ex quantitate3 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo primo, p. 1057.]». La sua interpretazione permise alla maggior parte dei giuristi di affermare che Paolo assimilava la moneta alle altre merci e che riconduceva il suo valore al valore intrinseco del metallo coniato, e a partire da questa interpretazione, prevalente salvo alcune eccezioni, si fondarono tutti i successivi sviluppi della teoria metallista.

Tuttavia, oltre a questo ed altri brani, che divennero i fondamenti teorici del metallismo monetario, i giuristi mutuarono dal diritto romano «gli elementi concettuali sui quali edificare il loro sistema dell'eguaglianza contrattuale e dell'autonomia privata». In questo modo, «sulla base di due frammenti di Ulpiano concepirono il contratto come norma tra le parti e quale limite per la certezza del rapporto. Il contratto è la legge che regola e disciplina le relazioni intersoggettive: perciò anche nei rapporti obbligatori pecuniari occorre riferirsi esclusivamente a quello soltanto onde assicurare la certezza dell'obbligazione4 [O. Nuccio, Visite in soffitta: questioni e teorie monetarie antico-moderno, in: «Notiziario economico bresciano», n. 29, settembre 1984, p. 13.]».

3. Le teoriche "metallistiche" da Pillio da Medicina a Bartolo da Sassoferrato

Pillio da Medicina, come d'altronde molti giuristi che lo seguirono, affrontò il problema del valore della moneta, evidenziando il danno che il creditore pativa a seguito di alterazione monetaria («mutatio monetæ»). La risoluzione venne discussa nella «quæstio 35» che poneva in questi termini il problema: «Un certo creditore lucchese cinque anni prima diede a mutuo una somma di denaro ad un amico, ora vuole che alla fine dell'anno gli sia restituita. Se nel frattempo la moneta si è deprezzata, si pone il quesito se l'obbligazione pecuniaria debba essere soddisfatta con moneta corrente deprezzata o con quella che circolava al momento in cui l'obbligazione fu contratta e di maggior valore5 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo primo, p. 1057.]».

Il giurista emiliano suppone, utilizzando il metodo abelardiano del sic et non6 [Raccolta di opinioni (sententiæ) di Padri della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come risposte positive o negative del problema proposto, donde il titolo, che suona sì e no (N. Abbagnano, Storia della Filosofia. Volume secondo. La filosofia medioevale, Milano, TEA, 1995, p. 155).], che gli argomenti pro li esponga il creditore, quelli contra il debitore. Il primo, dopo aver sottolineato che l'obbligazione deve essere adempiuta rispetto al tempo in cui sorse, tiene a puntualizzare che nella restituzione del bene preso a prestito si deve tener conto di due caratteristiche fondamentali: il genere e la qualità. Se il bene dato in restituzione non possiede queste peculiarità, il debitore non può considerarsi liberato dall'obbligazione. Le argomentazioni di quest'ultimo sono decisamente più deboli; egli sostiene che è determinante restituire beni non deteriorati, e che in caso di deterioramento a lui non imputabile, si deve ugualmente ritenere liberato dall'obbligazione. Infatti, che cosa avrebbe detto il creditore se il valore della moneta invece di diminuire fosse aumentato? La decisione di Pillio rispecchia il pensiero dei giuristi romani; anch'egli concepisce la moneta come merce e dimostra che il debitore può ritenersi liberato dall'obbligazione solo restituendo la stessa moneta che ha avuto in prestito («[...] tale tamen reddendum est, quale datum fuerit [...]7 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo primo, p. 1059.]»).

I problemi che le alterazioni monetarie producevano furono esaminati da un altro grande giurista: Azzone. Questi vide che la cosiddetta «mutatio monetæ» provocava degli squilibri tra le due parti costituenti l'obbligazione pecuniaria (da una parte una lesione, dall'altra un lucro, entrambe non previste). La soluzione del maestro bolognese, ricavata soprattutto dal libro quarto del Codice («de rebus creditis»), innanzitutto mira a ristabilire una situazione di sostanziale equilibrio tra le parti perché prevede che il debitore restituisca moneta avente valore intrinseco uguale a quella avuta in prestito; permette, inoltre, di «comparare monete diverse emesse dai molteplici poteri forniti dello jus monetandi. L'imperatore - segno dei tempi che stavano mutando - non era più, infatti, l'unica potestà abilitata ad emettere moneta; pure i regna e le civitates coniavano denari forniti di potere liberatorio. Azzone aveva gettato le basi su cui generazioni di studiosi, fino al Settecento, avrebbero edificato il grande edificio della teoria monetaria8 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1139.]».

Se la trattazione monetaria di Azzone costituì il punto dal quale partirono tutte le successive analisi dei civilisti, il canone «Quanto» di Innocenzo III, compreso in una lettera che il Pontefice inviò al re d'Aragona Pietro II, probabilmente nel 1199, è considerato il preludio alle successive teorie monetarie dei canonisti. Alfonso II, al quale Pietro era succeduto pochi anni prima, spinto dalle necessità finanziarie generate dalle continue guerre contro i Mori, aveva svalutato la moneta diminuendo il metallo in essa contenuto. Pietro II per far fronte a questa situazione di incertezza, causata dalla moneta svalutata, si impegnò attraverso un solenne giuramento a mantenere stabile, fino ad una cera data, il valore della moneta in corso imponendo come corrispettivo a questa sua rinuncia il pagamento di una tassa chiamata «monetal». Questa imposizione provocò il malcontento popolare e l'opposizione violenta delle classi privilegiate che indussero il re a rivedere la propria condotta ed a chiedere al Papa di essere sciolto dal giuramento. Per Innocenzo III bisognava distinguere: il giuramento non aveva alcun valore, e non andava osservato se nel momento in cui fu fatto il re era consapevole che la moneta fosse «defraudata», se, viceversa, il re riteneva che la moneta fosse legittima il giuramento era valido e quindi andava ottemperato. Innocenzo III suggerì così al re d'Aragona, che doveva far fronte alle lagnanze generate, di ritirare dalla circolazione la moneta «defraudata» e di emetterne un'altra uguale con un contenuto maggiore di metallo fino.

Il pensiero del Pontefice è stato interpretato in chiave di "etica economica" da parte di alcuni storici i quali hanno affermato che «il responso pontificio, espresso secondo lo schema logico degli Scolastici, ha un grande interesse perché rileva le idee correnti nel secolo XII e XIII in materia di politica monetaria. [...] La perentoria condanna di ogni processo di tosature delle moneta, sancita da Papa Innocenzo e da quanti ne proseguirono la dottrina, rientrava nelle linee generali della sua concezione etico-politica9 [G. Barbieri, Le dottrine monetarie dal XIII al XVII secolo (Schema di una ricostruzione panoramica), in: La moneta nell'economia europea, secoli XII-XVIII. Atti della settimana di studio, 11-17 aprile 1975. Istituto Internazionale di storia economica Francesco Datini. Prato. A cura di V. Barbagli Bagnoli. Firenze, Le Monnier 1982, p. 314.]» (corsivo nostro).

Sembra però preferibile una seconda interpretazione, scaturita da un'attenta analisi dell'intera opera di Innocenzo III e dal ruolo che la Chiesa assunse nel XII secolo, in base alla quale possiamo affermare che «Innocenzo III non contesta i principi monetari correnti nel suo tempo, cioè quelli elaborati dai glossatori sulla base dei testi romani interpretati in chiave metallista, (princìpi lontani dallo schema logico degli scolastici)».

Il Papa, inoltre, «non nega al principe il diritto di fissare il valore della moneta; lo riconosce quantomeno implicitamente, dacché lamenta che ne ha fatto uso senza moderazione [«ultra legitimum modum»], non contesta, neppure, il diritto di mutarla, poiché ciò che propone in fin dei conti è una mutazione, giacché invita don Pedro a toglier valore all'antica moneta per dare corso a nuove specie di maggior pregio10 [É. Bridey, citato in: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1166.]». Oltre a ciò, esaminando la struttura costituzionale del regno di Aragona, facilmente si evince che Innocenzo III riproverò al sovrano, che aveva mutato al moneta senza il consenso del popolo, la violazione del principio politico-costituzionale della rappresentanza e non già di una ipotetica norma "etico-politica".

Quando Innocenzo III stabilì «a vantaggio dei sudditi» quelli che vengono chiamati «i limiti etico-politici alla manovrabilità delle monete ad opera dei governanti11 [G. Barbieri, Le dottrine monetarie ..., cit., p. 312.]» non mirava alla salvaguardia del patrimonio economico di tutti i cristiani, ma, al contrario, bisogna tener ben a mente che la stessa Chiesa «era titolare di censi, livelli, locazioni, perpetue, decime enfiteusi e quindi dei pagamenti dei quali tali istituti erano la fonte e la causa. Erano pagamenti annui che duravano a lungo nel tempo per cui diveniva, in periodi di alterazioni monetarie, estremamente importante stabilire i criteri che dovevano regolare le prestazioni monetarie a favore della chiesa. Le fonti dottrinali come quelle legislative canoniche - poco o nulla studiate dagli storici economici - s'occupavano largamente e minutamente della questione, anche perché si trattava di fissare una norma che assicurasse ai soggetti titolari attivi, cioè ai creditori, delle prestazioni annue derivanti dai censi, livelli, decime, etc., la certezza in valore reale dell'obbligazione pecuniaria12 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1168.]».

Questa preoccupazione è presente in altri brani dell'opera della sua opera: il commento al titolo «de censibus» delle Decretali di Gregorio IX e alcune lettere da lui inviate ai prìncipi polacchi. Nel primo, analizzando il pagamento di un censo (un'obbligazione pecuniaria, appunto), Innocenzo III mette in luce il danno che derivava al titolare dei censi, quando la moneta con cui veniva pagato il censo si deprezzava rispetto alla moneta con la quale era stato stabilito il pagamento, ed invita i fedeli «a pagare l'obbligazione nella moneta in cui era stata istituita13 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1169.]». Mentre nelle lettere inviate ai princìpi polacchi le medesime conclusioni sono espresse in modo altrettanto esplicito, essi vengono ammoniti a corrispondere alla Chiesa i censi con moneta avente sempre il medesimo valore («cum integritate»), senza alcuna condanna di tipo «etico-politico» delle manipolazioni monetarie.

Questa breve analisi ci permette di giungere alla conclusione che il pensiero monetario di Innocenzo III scaturì anche dalla preoccupazione di salvaguardare il «patrimonio ecclesiastico nella sua consistenza sia dai processi monetari che dalle resistenze dei laici che cercavano di sottrarsi agli oneri ecclesiastici14 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1171.]»

La necessità di individuare norme certe in grado di regolare la delicata materia monetaria trovò un altro importante interprete in Epifani Roffredo di Benevento. Il definitivo affermarsi di una economia caratterizzata da scambi sempre più intensi ed estesi, realizzati soprattutto con lo strumento monetario e quello del credito, esigeva princìpi in base ai quali rendere certi i rapporti economici che ne scaturivano. La teoria metallista fu la risposta a questa concreta esigenza di certezza. Come i giuristi che lo avevano preceduto, il Beneventano prese dalle leggi romane che disciplinavano il mutuo di cose, («Cum quid» e «Vinum» del Digesto), le mosse della sua teoria monetaria. La «bonitas intrinseca» divenne la prerogativa principale dello strumento monetario; egli sostiene infatti che nel caso di restituzione di un mutuo di denaro, infatti, la moneta restituita doveva contenere la stessa quantità di metallo pregiato rispetto a quella ricevuta in prestito e soprattutto non doveva essere «reprobata», doveva cioè avere ancora valore legale.

Anche un altro Pontefice, Innocenzo IV, si soffermò ad esaminare la controversa questione della natura della moneta, partendo, come d'altronde tutti i canonisti che lo seguirono, dal canone «Quanto» di Innocenzo III. Dopo aver ribadito la condanna di tutte le adulterazioni monetarie, egli afferma categoricamente che il principe nel batter moneta deve conferire a questa un valore uguale a quello del metallo grezzo. Tuttavia riconosce, e qui sta l'originalità del suo pensiero, che il titolare del diritto di monetazione possa coprire le spese sostenute per il conio con un prelievo di ugual misura, ed in casi di gravi necessità finanziarie ammette perfino che il principe possa ricorrere, con il consenso del popolo come aveva detto Innocenzo III, ai profitti che derivano dalle manipolazioni monetarie.

L'effetto di queste manipolazioni era tale però che la moneta non aveva più un valore circolante e liberatorio fuori del regno. Quest'ultimo principio, attraverso il quale viene formulata la distinzione tra mercato interno, dove può circolare moneta con un valore diverso da quello del metallo che essa contiene, e mercato internazionale, dove la corrispondenza tra «valor impositus» e «bonitas intrinseca» è sempre necessaria, avrà importantissimi sviluppi. La ritroveremo infatti nelle opere di diversi scrittori che fino al XIX si occuperanno della materia monetaria.

Il punto di partenza della trattazione monetaria di Accursio è, così come per molti altri civilisti, il passo del giureconsulto romano Giulio Paolo, ma le conclusioni alle quali arriva il grande giurista scaturiscono soprattutto da una concreta analisi del disordine monetario del periodo in questione e quindi dalla necessità di assicurare che i rapporti pecuniari tra le parti si svolgessero secondo un principio di certezza e soprattutto di equità. Questo principio poteva essere assicurato solo equiparando, attraverso un'interpretazione del termine «quantitate» inteso come quantità di materia, la moneta alle altre merci ed applicando i fondamenti giuridici (le leggi «Cum quid» e «Vinum » del Digesto) che disciplinavano la restituzione di queste.

Da tali considerazioni deriva evidentemente che per Accursio le caratteristiche principali della moneta sono il peso e al bontà del metallo; queste e non il corso legale determinato dal principe («æstimatio») devono ispirare i rapporti tra le parti. La soluzione accursiana «riducendo il valore della moneta al valore del metallo coniato, costituiva per i privati la sola garanzia valida di fronte alle arbitrarie mutazioni monetarie che l'autorità poteva compiere e che realmente poneva in essere, come la storia medievale della moneta insegna, sotto l'urgenza delle esigenze della finanza statale15 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1346.]»

L'analisi delle falsificazioni monetarie occupa un posto di primo piano nell'opera di Enrico da Susa, il quale, partendo dalle teorie di Innocenzo III e di Innocenzo IV, esclude decisamente che il sovrano possa modificare il valore della moneta senza il consenso del popolo, prerogativa che apparteneva solo all'imperatore. Passando poi a descrivere dettagliatamente le pratiche di manomissione più frequenti afferma che la moneta poteva venir alterata: nella sua materia (modificando la bontà del metallo coniato), nel suo peso (impiegando una quantità inferiore di metallo) e nel suo corso (indicando un valore legale diverso da quello che effettivamente possedeva). La soluzione del canonista non prescinde da una condanna dura quanto decisa: l'alterazione del valore della moneta è una grave frode fatta ai singoli. Egli intuisce chiaramente gli effetti che queste pratiche avevano sui rapporti pecuniari ed si avvicina alle conclusioni dei civilisti: il creditore, come garanzia dei danni derivanti dal mutato valore della moneta, poteva pretendere che il debito venisse pagato con moneta avente lo stesso valore peso e corso di quella data in prestito. Le sue conclusioni metallistiche scaturiscono dalle conseguenze economiche che le mutazioni monetarie provocavano; come i canonisti che lo avevano preceduto - non a caso anch'egli si occupò della moneta trattando della delicata questione censuaria -, Enrico da Susa aveva ben in mente la che la Chiesa era titolare di un innumerevole numero di censi, quindi si può intuire che anch'egli si adoperò a trovare i fondamenti teorici affinché le entrate mantenessero sempre la medesima consistenza.

Insieme a Enrico da Susa, non si può fare a meno di ricordare S. Tommaso d'Aquino, che molto probabilmente è l'autore dell'opera più vasta e complessa del periodo in questione. Il tema della moneta è presente in tutti i suoi scritti più importanti e «sembra potersi dire che la trattazione di questa faccia da legame tra la questione del prezzo e quella dell'usura; proprio occupandosi dell'usura, al fine di negarne la liceità, il Teologo esclude che la moneta abbia un'utilità propria, e le riconosce quella indiretta, derivante dalle cose che con il denaro sono misurate16 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo secondo, p. 1535.]».

Gran parte della storiografia economica non ha forse tenuto sufficientemente in conto che S. Tommaso trattando del mutuo pecuniario utilizza i princìpi del diritto romano, perché assimila la moneta alle cose consumabili, come grano e vino, per dimostrare che nella restituzione di questa si deve considerare solo la restituzione della cosa e non pretendere un prezzo per l'uso che se ne è fatto.

Pare pertanto riduttivo affermare che le opinioni dell'Aquinate furono suffragate solo dall'autorità di Aristotele, al quale peraltro lo stesso San Tommaso, commentando alcuni passi17 [Il passo dell'Etica che più di tutti ha colpito i commentatori è sicuramente quello in cui si legge che «la moneta non è stabilita dalla natura, ma dalla legge»; citazione tratta da: O. Nuccio. Geminano Montanari, Appendice al vol. III, parte antica, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], ristampa anastatica, Roma, Bizzarri, 1965, p. XXI.] dell'Etica Nichomachea, fa risalire la dottrina della moneta-segno. Peraltro la interpretazione nominalistica della teoria monetaria dello Stagirita, dominante fino a Galiani, e che prevalse anche in Montanari, è stata messa in serio dubbio da interpreti molto autorevoli del suo pensiero, i quali sulla base di affermazioni tratte anche dalla Politica preferiscono interpretare in senso metallista il suo pensiero.

Molto penetrante ci sembra la teoria monetaria formulata da un altro giurista: Andrea d'Isernia. Egli innanzitutto sostiene, contro l'opinione di Enrico da Susa, per il quale solo all'imperatore spettava il diritto «esclusivo» di batter moneta, che anche il re poteva esercitare questo diritto. Inoltre, andando, anche in questo caso, contro il giudizio dell'Ostiense, quando il re effettuava una variazione del valore della moneta non era necessario il consenso del popolo. Ma per evitare l'abuso di questo diritto e costituire una forma di garanzia per i singoli, Andrea d'Isernia mette a punto una teoria monetaria che arriva ad identificare, talvolta in modo esasperato, la moneta alle altre merci.

Per questo il sovrano doveva necessariamente conferire alla moneta coniata il giusto peso e ritirare dalla circolazione la moneta erosa, e, coerentemente con quanto aveva affermato (il re nell'esercitare questo diritto risultava «superiorem non recognoscens»), sostiene che il re commette peccato se non conferisce alla moneta il giusto peso («[...] Alias peccant principes monetam minus legitimam faciendo fieri et tenentur sicut de rapina [...]18 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 1839.]»); così facendo evita di sanzionare la condotta del sovrano sul piano giuridico, limitandosi solo ad esprimere giudizi di carattere teologico e morale.

Metallista intransigente, il Molisano afferma perentoriamente l'uguaglianza tra il valore del metallo monetato e il valore del metallo in pasta; se ad esempio diminuiva il valore sul mercato di quest'ultimo al re non rimaneva altro che fondere la moneta ed aggiungervi altro metallo per ristabilire l'equivalenza perduta. Ma, per far fronte a circostanze di natura eccezionale, il sovrano poteva alterare il valore della moneta, e perfino far circolare moneta di metallo vile obbligando tutti i sudditi a spenderla ed accettarla come buona. L'alterazione però, doveva essere solo temporanea e la moneta essere subito dopo ricondotta alla sua «bonitas intrinseca», solo così poteva assolvere alla sua primaria funzione di misura dei valori ed intermediaria degli scambi.

Il contributo più importante offerto dal Molisano alla teoria monetaria è senza dubbio lo studio dell'aumento dei prezzi. Secondo la sua interpretazione, che in qualche modo precorre la teoria quantitativa della moneta, i fenomeni inflazionistici venivano provocati oltre che dalla riduzione della quantità d'intrinseco contenuta nelle monete, anche e soprattutto dall'aumento della produzione dei metalli preziosi che provocava un aumento di circolante. Egli, così facendo, anticipa le posizioni di Jean Bodin, il quale, polemizzando con il Signore di Malestroit, indicava nell'aumento della disponibilità di metalli la causa preponderante dell'aumento dei prezzi.

L'opera di Tolomeo da Lucca pur non aggiungendo nulla di nuovo sotto il profilo delle idee economiche è stata forse interpretata in maniera troppo riduttiva dagli storici i quali, anche in questo caso, non hanno considerato con la dovuta attenzione l'utilizzo che egli fece della letteratura elaborata dai canonisti, finendo per insistere troppo sull'aspetto scolastico-aristotelico del suo pensiero. Il teologo lucchese dichiara, utilizzando sia fonti patristiche che fonti aristoteliche, che il nome di moneta deriva da «moneo» (ammonire), «per il fatto che ammonisce la mente; perché - essendo essa la giusta misura - non ci sia frode fra gli uomini; cosicché, come sostiene s. Agostino trattando questo argomento, l'immagine di Cesare sia per l'uomo come l'immagine di Dio. Viene chiamata anche nomisma perché è contrassegnata dai nomi e dall'effige dei prìncipi, come spiega s. Isidoro19 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 1926.]».

Da questi princìpi scaturisce l'invito esplicito ai sovrani affinché utilizzino lo «jus monetandi» in modo tale da non recare pregiudizio al popolo, in quanto alterare la moneta significa alterare la misura delle cose scambiate; per accreditare questo giudizio Tolomeo da Lucca richiama (con una interpretazione molto simile a quella dei moderni storici dell'«etica economica») la condanna di Innocenzo III al re d'Aragona che aveva svilito la moneta a danno del popolo. Nella sua analisi delle questioni monetarie non poteva mancare l'esame del contratto di mutuo pecuniario dove il teologo riassume i princìpi elaborati in materia dai giuristi secondo i quali il debitore era tenuto a corrispondere al creditore moneta avente lo stesso valore di quella ricevuta al momento in cui sorse l'obbligazione, prescindendo dai cambiamenti apportati dal sovrano al valore dell'unità monetaria. L'importanza assunta, in riferimento alla fattispecie di mututo pecuniario, dal valore intrinseco della moneta ci mostra quanto vicine fossero le sue posizioni a quelle dei canonisti che lo avevano preceduto. Contrariamente alle interpretazioni correnti, possiamo quindi concludere, che alla formazione delle idee economiche - in particolare quelle monetarie - di Tolomeo da Lucca abbiano concorso, come per quelle di S. Tommaso, in modo prioritario le dottrine dei canonisti come Innocenzo III e Enrico da Susa.

La storiografia economica tradizionale (forse troppo impegnata ad esaltare, sulla traccia di Émile Bridey, l'opera di Oresme), non ha considerato con sufficiente attenzione l'opera di un altro grande civilista, Cino da Pistoia, che, allarmato dalle conseguenze negative del disordine monetario, affrontò la dibattuta questione monetaria in modo complesso ed articolato. Anch'egli - e la ripetizione non sembri noiosa - affronta il tema monetario trattando del contratto di mutuo. In conformità con i precetti giusromanistici sostiene che nel caso di mutuo il debitore deve restituire cose dello stesso genere e della stessa qualità. Nel caso di un mutuo pecuniario, invece, essendo la moneta un bene particolare che riceve una valutazione supplementare ad opera della legge («æstimatio imposititia») che può divergere dal valore del metallo in essa contenuto («bonitas intrinseca»), si deve tener conto soprattutto di quest'ultima caratteristica, coerentemente con quanto prescriveva la legge «Cum quid» del Digesto, che parlava espressamente di «eadem bonitate».

Il problema di definire esattamente la «bonitas intrinseca» sorgeva perché tra il «tempus contractus» e il «tempus solutionis» interveniva una variazione nel valore estrinseco della moneta. A questo proposito Cino aveva scritto «ista quæstio est antiqua, et variae sunt sententiæ, & in modernis temporibus agitant mentes Doctorum20 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 1983.]». Alcuni di questi «doctores» sostenevano che il debitore poteva ritenersi liberato restituendo al creditore moneta corrente al tempo dell'adempimento dell'obbligazione perché erano dell'idea che la moneta fosse un bene particolare il cui valore non dipendeva solo dalla materia che la costituiva ma anche, e soprattutto, dalla forma che riceveva dalla legge e dall'uso che se ne faceva.

L'argomentazione di Cino da Pistoia è la seguente: in primo luogo afferma la necessità di distinguere se la moneta è stata «reprobata» (sia stata tolta dalla circolazione) oppure diminuita «quantum ad usum» (abbia subito una variazione nel suo valore estrinseco, nel suo corso). Nel primo caso il debitore è tenuto a restituire la moneta «sub maiori æstimatione»; nel secondo caso, invece, il debitore è tenuto a restituire solo il valore intrinseco della moneta, ovvero il valore del metallo in essa contenuto. In quest'ultima circostanza è il creditore (questo è l'aspetto che differenzia la dottrina di Cino) che subisce i possibili effetti negativi della variazione monetaria.

In conclusione ci pare giusto affermare che «la soluzione "metallista" di Cino, seguita da Bartolo da Sassoferrato, ma non da Baldo degli Ubaldi e criticata da Nicolò de' Tedeschi e da Antonio da Butrio, mira a togliere importanza ed incidenza al factum principis, cioè all'alterazione che l'autorità monetaria apporta alla moneta, da lui ritenuto estraneo all'autonomia delle parti. Accettare il factum principis significa riconoscere la validità dell'intervento statale nel rapporto giuridico, permettendo ad un evento di natura politica d'incidere profondamente su quello. Accettare quella soluzione vuol dire salvaguardare l'autonomia privata e dare prevalenza al rapporto giuridico di diritto privato rispetto al fatto politico, ed economico, della mutazione21 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 1985.]».

La vasta opera giuridica di Bartolo da Sassoferrato viene considerata di grande valore per il contributo decisivo che apporta alla dottrina "metallista", tanto che quest'ultima viene da taluni detta anche concezione "bartolistica" della moneta. Bartolo non affrontò solamente il tema monetario, ma anche altre problematiche che potremmo definire «economiche», come l'usura, l'attività dei mercanti, il prezzo, il cambio, etc., svolgendo per queste ultime un prezioso lavoro di sistemazione che manca però di originalità e di contributi innovativi. Tutte le argomentazioni teorizzate dai giuristi anteriori, che miravano a legittimare, nella determinazione del valore della moneta, la qualità e la quantità del metallo in essa contenuto, vengono riaffermate in modo sistematico e compiuto dal giurista marchigiano. Le pratiche con le quali i sovrani sostituivano il valore reale della moneta con una stima fittizia, oltre a pregiudicare lo sviluppo in senso commerciale della società medioevale e compromettere la certezza degli scambi, costituivano un danno per i singoli. Il ricorso ai princìpi superiori del diritto naturale, affermati nei testi romani, come quello dell'«æquitas contrahentium», rappresentò per i giuristi la via per delegittimare pratiche tanto pregiudizievoli.

L'interpretazione in chiave metallista del passo del giurista Giulio Paolo nella legge «Origo» è anche nel caso di Bartolo il fondamento del suo metallismo teorico; questo brano, che viene utilizzato per postulare l'uguaglianza di valore tra il metallo coniato e il metallo in quanto materia («tantum valet in forma quantum valet in materia22 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2069.]»), permette al giurista marchigiano di affermare che in base alla bontà ed al peso del metallo coniato deve essere assicurata l'uguaglianza di valore tra la moneta ed il metallo grezzo. Da questi presupposti scaturisce (forse la nota che più di tutte differenzia Bartolo dagli altri giuristi) la illegittimità dei prelievi imposti dai prìncipi a titolo di spese di monetazione. Ai sovrani non era consentito in nessun caso e per nessun motivo adulterare il valore della moneta, essi comunque potevano (e dovevano) variarne il valore a seguito di una corrispondente variazione del valore commerciale dei metalli sul mercato. Queste affermazioni, oltre a costituire i fondamenti del sistema "metallista", ci permettono di esaminare la più complessa questione delle obbligazioni pecuniarie svolta da Bartolo nel celebre commento ad un altro frammento del Digesto, in cui il giurista romano Giulio Paolo «fissava il principio che il creditore non può essere costretto a ricevere denaro mutuato in aliam formam se ne derivasse per lui un danno»23 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2071.].

Bartolo esamina analiticamente la questione che può essere così sintetizzata: la mutazione monetaria (che diminuiva la quantità di metallo fino contenuto nelle monete) provocava una variazione nel valore della moneta e quindi cagionava un danno per il creditore, al quale veniva restituito metallo di minore quantità o/e di minore bontà. Secondo il giurista marchigiano, ed è, come abbiamo visto, questo l'aspetto più innovativo della sua opera, il debitore veniva liberato dall'obbligazione anche restituendo moneta diversa da quella ricevuta in prestito, era infatti sufficiente che restituisse lo stesso in termini di "materia". («[...] Una pecunia pro alia solvi potest, dummodo aliquod damnum non patiatur24 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2069.] [...]»). Questa soluzione, era ancora una volta, confortata dal riferimento ad una legge del Digesto: la «Quæsitum». Citando quest'ultima Bartolo afferma che «in pecunia et in omni genere metalli, materia inspicitur simpliciter et trahit ad se magis formam quam formam materiam25 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2073.]».

4. Le soluzioni innovative di Baldo degli Ubaldi, Nicola de' Tedeschi, Raffaele Fulgosio

Per garantire il creditore da un danno patrimoniale, inteso come diminuzione di metallo fino ricevuto, il Marchigiano aveva postulato l'identità tra «valor» del metallo ed «æstimatio» conferita alla moneta; questa soluzione, che riduceva la pecunia alla res che la costituiva, era in qualche modo incompleta. A ben considerare la questione, infatti, il creditore era garantito solo nei confronti della merce moneta - e del metallo in essa contenuto - e non riguardo a tutte le altre merci presenti sul mercato; ad esempio, se il creditore, mutuando al debitore dieci lire, pari a dieci grammi di metallo fino, avrebbe potuto acquistare cento quintali di grano, e se al momento della restituzione il prezzo del grano fosse aumentato, il creditore, che secondo Bartolo doveva ricevere la stessa quantità di metallo fino, pativa un danno patrimoniale pari all'aumento del prezzo del grano.

Baldo degli Ubaldi impostò pressappoco in questi termini il problema della restituzione del mutuo pecuniario. Il caso dal quale partì per la sua analisi fu quello della determinazione del valore dei pagamenti (come per esempio la corresponsione di un censo o di un salario), se tra il tempo in cui nacque e quello in cui viene estinto il rapporto giuridico esaminato dalla legge era avvenuta una mutazione nel valore della moneta. Il fenomeno della «mutatio monetæ» induceva il giurista a valutare in termini "economici" oltre che giuridici gli effetti che questa provocava, e quindi di risolvere le controversie che si presentavano tenendo conto di questi effetti. Il Perugino, seguendo l'insegnamento del suo maestro Bartolo, sembra accettare sostanzialmente la teoria "metallista", ma apporta a questa importanti differenziazioni che conferiscono al suo pensiero monetario un carattere così innovativo da farlo apparire disomogeneo e frammentario.

Nel commento alla legge «Acceptam», dove si propone di stabilire se l'«æstimatio» è una qualità intrinseca del bene moneta («estimatio in moneta sit qualitatis intrinseca seu accidens proprium26 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2301.]») o è una valutazione che deriva all'arbitrio dell'uomo («est qualitas extrinseca quia artificio hominis non ex natura numismatis27 [Citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2301.]»), egli giunge ad assegnare al bene moneta particolari caratteristiche economiche, che superano la distinzione tra «bonitas intrinseca» e «valor impositus» elaborata dalla teoria "metallista". Nella glossa alla legge in questione, dove affrontava il caso della restituzione di un mutuo pecuniario a seguito di una diminuzione di valore della moneta, egli definiva in maniera indiretta le caratteristiche essenziali del mezzo monetario. Secondo Baldo bisognava innanzitutto distinguere se la mutazione del valore della era prevedibile: in questo caso nella restituzione della moneta il debitore doveva tener conto dei vantaggi (le «utilitates») che egli aveva tratto o avrebbe potuto trarre dall'utilizzo del denaro preso in prestito, perché sentenzia Baldo «non est licitum quod lucretur cum aliena jactura29 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2304.]».

I vantaggi, tradotti in termini economici, consistevano nella differenza di valore che i beni, acquistati dal debitore prima della diminuzione del valore reale della moneta e del conseguente aumento dei prezzi, avevano al momento della restituzione della moneta. Utilizzando un linguaggio attuale, possiamo affermare che il creditore riceveva una somma di moneta il cui "potere d'acquisto" fosse inferiore a quella data in prestito. Rispetto all'analisi di Bartolo, quella del suo discepolo ascrive alla moneta una funzione diversa; mentre il primo aveva messo in luce soprattutto l'aspetto materiale costituito dal metallo prezioso in essa contenuto, a quest'ultimo preme sottolineare le "potenzialità economiche" che derivavano dal possedere moneta.

Per Baldo, a differenza dei giuristi a lui antecedenti, la moneta non è un bene equiparabile a tutti gli altri, essa possiede delle specificità essendo ormai divenuta indispensabile agli scambi di una realtà socio-economica in continua evoluzione. L'opera di Baldo «tra le più valide e significative testimonianze dell'indirizzo preso dal pensiero italiano nella seconda metà del Trecento e perciò pure dello sforzo tenace e continuo di quello per fornire agli istituti ed agli atti economici, posti in essere nella società mercantile, soluzioni compatibili con le esigenze di civile ed ordinato sviluppo291 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2304.]», essa «è il risultato della una nuova mentalità - già umanistica - che riabilita l'uomo ed il suo operato sociale30 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2304.]».

L'esame delle questioni monetarie sotto l'aspetto giuspubblicistico fu affrontato soprattutto dai canonisti che a partire da Innocenzo III, diedero una sistemazione compiuta alla materia monetaria. L'apporto più importante dei canonisti fu appunto quello di aver rilevato la necessità del consenso del popolo alle operazioni di mutazioni della moneta. Questo principio insieme a quello più importante, elaborato dai civilisti, della tutela patrimoniale del singolo è presente nell'opera di Nicola de' Tedeschi detto il Panormitano.

Il problema fondamentale che travagliava i giuristi da secoli, e che dal Panormitano veniva chiamato «quæstio quotidiana», era il modo in cui il debitore doveva estinguere una obbligazione pecuniaria, se tra il tempus contractus e il tempus solutionis era intervenuta una alterazione del valore della moneta, mutazione che, precisa il giurista, avrebbe potuto alterare sia il corso della moneta che il suo peso.

Nell'esaminare il primo caso egli riproduce sostanzialmente la posizione di Baldo, affermando che nella restituzione della moneta si deve tener conto in primo luogo della «bonitas penes usum», e quindi restituire moneta avente lo stesso valore legale di quella presa in prestito; questo principio serviva sopratutto a confutare la posizione di coloro i quali , come Cino da Pistoia, avevano affermato che nel caso in cui il debitore non poteva restituire la stessa moneta presa a prestito, perché nel frattempo era stata «reprobata», cioè tolta dalla circolazione, doveva restituire moneta avente la medesima «æstimatio» di quella antica. Facendo notare che la «reprobatio monetæ» era solo un caso particolare della «mutatio monetæ» il Panormitano intendeva rilevare una importante contraddizione presente nella teoria «metallista» che nella restituzione del prestito non aveva tenuto conto, anche se involontariamente, solo della quantità di metallo fino contenuto nella moneta.

L'apporto teorico di Nicola de' Tedeschi fu certamente importante e tenuto in gran conto dai giuristi che lo seguirono, tanto da venir spesso equiparato per importanza a Bartolo da Sassoferrato. Di questo contributo tenne certamente conto Raffaele Fulgosio, che in sede di interpretazione della legge «Origo emendi» dà una nuova lettura del termine «quantitas» che, inteso fino a quel momento dalla dottrina metallistica come quantità di materia («quantitas ponderis»), assume ora un significato diverso. Il giurista milanese afferma infatti che il termine in questione non sta a significare altro che il valore attribuito dalla pubblica autorità alla moneta. Ma dal commento alla legge «Cum quid» sembra che Fulgosio riproponga opinioni assai vicine a quelle metallistiche, affermando espressamente che «ex substantia tamen præbet et affert usus et utraque31 [citazione tratta da: O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2727.]».

L'alternarsi di posizioni contraddittorie, che può apparire come il risultato del travaglio intellettuale del giurista, era il risultato della visione che il Giurista aveva di una realtà economico-mercantile in continua evoluzione, caratterizzata sempre più da un disordine monetario che talvolta assumeva forme caotiche.

Nasceva quindi la necessità di «proporre una soluzione univoca del valore della moneta, vale a dire un criterio valido sia per il mercato interno che per quello internazionale32 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 1, tomo terzo, p. 2728.]»; in quest'ultimo caso era indispensabile ancorare gli scambi ad un parametro universalmente accettato come il metallo prezioso, per il primo invece era sufficiente fare riferimento al valore che il principe assegnava alle monete. Questa soluzione, già anticipata nella dottrina di Innocenzo IV, avrà importanti sviluppi nel pensiero economico italiano. Raffaele Fulgosio sarà, come vedremo, seguito da Antonio Serra e soprattutto da Geminiano Montanari.

5. Gasparo Scaruffi e il progetto di riforma monetaria europea

Il primo trattato monetario in lingua italiana, che non fu del tutto condizionato dal tradizionale patrimonio giuridico fu L'Alitinolfo33 [Il titolo completo è: L'Alitinolfo per far ragione, et concordanza d'oro e d'argento; che servirà in universale tanto per provvedere a gli infiniti abusi del tosare et guastare monete quanto per regolare ogni sorte di pagamento et indurre ancor tutto il mondo ad una sola moneta, in Reggio, 1582.] pubblicato nel 1582 dal mercante reggiano Gasparo Scaruffi. Gli effetti devastanti di quello che Jean Bodin chiamava «morbus nummaricus» continuarono a tormentare i giuristi italiani, che proprio in questo secolo scrissero un gran numero di trattatati, tutti di importanza non trascurabile, nello sforzo di trovare una soluzione ai gravi problemi monetari. L'Italia, forse perché politicamente divisa, era colpita da questo male più di ogni altro paese europeo. L'opera del Reggiano non ebbe finalità diverse da quelle dei «doctores» del diritto, anche se da queste si differenziò soprattutto per il modo pratico con cui affrontò i problemi. Scaruffi era un uomo esperto di questioni monetarie, preoccupato di mettere ordine, attraverso un progetto radicale di riforma, al caos del suo periodo, che aveva raggiunto livelli tali da compromettere lo sviluppo economico-commerciale della società europea alla fine del Cinquecento.

Il suo punto di partenza è una concezione monetaria "metallista" molto simile a quella di Bartolo da Sassoferrato. L'esempio più illuminante di quanto il metallismo fosse radicato nella sua teoria monetaria è offerto dal suo disinteresse verso problemi importanti come la differenza tra valore intrinseco e valore estrinseco delle monete oppure la liceità o meno del diritto di signoraggio. Il sovrano non poteva per nessuna ragione modificare a suo piacimento il valore della moneta, ma doveva esclusivamente limitarsi a riconoscere il valore del metallo in essa contenuto; alterare il valore della moneta poteva significare alterare i valori delle merci ed ostacolare il regolare svolgimento delle attività economiche, essendo questa «base, fondamento ed una misura pubblica e comune a tutti per fare contratti di mercantie e di molte altre cose34 [Gasparo Scaruffi, Discorso sopra le monete e della vera proporzione tra l'oro e l'argento, il cui titolo originale è L'Alitinolfo, in Scrittori Classici di Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte antica, vol. II. Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965 p. 142.]». La circolazione di monete erose o tosate, la diversità dei titoli, dei pesi e dei prezzi dei metalli utilizzati ed infine la complessità del linguaggio utilizzato in materia erano le cause principali del disordine monetario.

Come tutti gli scrittori del Cinquecento, anch'egli si occupò del rapporto legale tra il valore dell'oro e quello dell'argento sopra il quale era imperniato il funzionamento del sistema bimetallico; pur essendo consapevole della instabilità del rapporto commerciale dei due metalli, era profondamente convinto che tale rapporto andasse stabilito in misura pari ad un dodicesimo. Il rapporto fisso tra il valore dei metalli preziosi era fondamentale per l'ambizioso progetto di riordino generale del sistema monetario, esso, anche se di difficilissima realizzazione, non era ispirato, come ha sostenuto Schumpeter, da una «fede irrazzionale35 [J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, trad. ital., Torino, Einaudi, 1959-1960, p. 355.]» ma scaturiva da un attento esame della realtà monetaria del periodo.

L'adozione da parte di tutti i paesi europei di una moneta, chiamata «lira imperiale», era l'unico rimedio in grado di ovviare ai gravi inconvenienti generati dal caos monetario; questa moneta, coniata con una determinata quantità di argento, sarebbe divenuta il parametro di riferimento sul quale regolare tutti i pagamenti. La «lira imperiale» avrebbe così assolto contemporaneamente a due funzioni: quella di moneta immaginaria e quella di moneta corrente. Le monete provenienti dai diversi paesi, si sarebbero valutate così in modo uniforme utilizzando un solo peso, (la libbra bolognese), ed un solo prezzo dato che il valore della «lira imperiale» sarebbe stato fissato in maniera tale da risultare multiplo o sottomultiplo esatto di tutte le altre monete, sia d'oro che d'argento.

La parte finale dell'opera viene dedicata all'analisi dei vantaggi che sarebbero derivati dalla riforma del sistema monetario. Facendo continuo riferimento alle premesse "metallistiche" dalle quali era partito, il mercante reggiano afferma che al momento di ricevere un pagamento «ciascuno abbia la sua giusta quantità in peso dell'oro e dell'argento, in qualsivoglia sorte di monete36 [Gasparo Scaruffi, L'Alitinolfo ..., cit., p. 248.]». In questo modo risolve anche la delicata questione del mutuo pecuniario, sostenendo cioè che «non si dee aver riguardo al numero o valore delle lire, soldi e denari, col quale si spendono di presente, ma solo si dee aver riguardo alla quantità del peso dell'oro puro ch'entrava in quelli al tempo della creazione del debito37 [Gasparo Scaruffi, L'Alitinolfo ..., cit., p. 253.]». L'opera del Reggiano si rivela paritcolarmente apprezzabile perché «seppur limitatamente ad un solo aspetto, quello monetario, esprime la necessita, intrinseca ad ogni società ben ordinata, della certezza dei rapporti giuridici, sociali ed economici38 [O. Nuccio, Gasparo Scaruffi, Appendice al vol. II, parte antica, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], ristampa anastatica, Roma, Bizzarri, 1965, p. XCIV.]».

6. La teoria del valore e della moneta nell'opera di Davanzati

L'aspetto più interessante dell'opera economica di Bernardo Davanzati39 [Mercante e letterato fiorentino, visse tra il 1529 ed il 1606; è principalmente conosciuto come volgarizzatore di Tacito, ma scrisse tre opere di argomento economico: la Notizia de' cambi (1582), la Lezione delle monete (1588) ed il Trattato della coltivazione delle viti (1600).] è costituito senza dubbio dai contributi alla teoria del valore e della moneta. Contrariamente a quanto hanno fatto illustri economisti del passato, i quali hanno formulato giudizi poco generosi nei suoi confronti40 [Galiani, ad esempio, scrisse nella prima nota della seconda edizione del Della Moneta (1780): «tra molti scrittori, che ebbi in mira allora di biasimare per avere sconciamente e male scritto sulla moneta, e che, malgrado ciò, si trovavan citati quasi avessero autorità, si diresse particolarmente il mio pensiero a Bernardo Davanzati e all'Abate di Saint-Pierre. Il Davanzati scrisse nel principio del secolo passato una Lezione accademica sulle monete in basso volgar fiorentino (che è senza dubbio di tutti i dialetti italiani il più disgustoso, verificandosi il noto assioma che corruptio optimi est pessima) ed è impressa nel tomo quarto delle Prose fiorentine. Non migliori dello stile sono i suoi insegnamenti» (Ferdinando Galiani, Della moneta e scritti inediti, a cura di Alberto Carracciolo, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 306). Ugualmente infelice fu il giudizio di Francesco Ferrara che definì la Lezione «un buon riassunto di ciò che sapevasi intorno al nostro argomento». (Della moneta e dei suoi surrogati, cit., p. 74).], gli storici del pensiero economico hanno accolto in modo estremamente favorevole la sua opera: Schumpeter, ad esempio, ha affermato che «la Lezione delle monete rappresenta un modello, insuperato, in quel periodo, anche per l'eleganza letteraria, della teoria metallista sull'origine e la natura della moneta41 [J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi ..., cit., p. 355.]», mentre, non meno lusinghiero è stato il giudizio di Carl Pribram che lo definisce «il primo economista che separò con chiarezza la spiegazione dei prezzi da quella dei valori, poiché esemplificò le variazioni del grado di utilità mostrato dalle stesse merci al mutare delle circostanze, mentre si servì del concetto di equilibrio per spiegare il comportamento dei prezzi42 [C. Pribram, Storia del pensiero economico. Volume primo. Nascita di una disciplina. 1200-1800, trad. ital., Torino, Einaudi, 1988, p. 109.]».

La definizione di moneta che Davanzati dà all'inizio del suo breve scritto è molto importante per interpretare in chiave "metallistica" tutta la sua teoria; egli, infatti, dice che: «moneta è oro, ariento, o rame coniato dal pubblico a piacimento, fatto dalle genti pregio e misura delle cose per contrattarle agevolmente43 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte antica, vol. II, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965, p. 28.]». In questa proposizione sono riassunte almeno tre tesi fondamentali: 1) i metalli preziosi conferiscono alla moneta caratteristiche di validità universali; 2) la moneta nasce dalla convenzione tra i popoli; il sistema monetario è quindi «un istituito che appartiene al diritto delle genti44 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, vol. 2, tomo secondo, Cagliari, Gallizzi, 1992, p. 1079.]» ed il principe cui spetta il diritto di batter moneta ha il compito di valutare in modo uniforme i metalli coniati e di assegnare alle monete il giusto valore, tuttavia, può anche far circolare monete coniate con metalli non pregiati il cui valore però sarebbe riconosciuto solo all'interno dei suoi domini; 3) il compito principale della moneta è quello di facilitare gli scambi perché gli uomini, accortisi «che le cose non si possono agevolmente portar attorno o lontano, per fuggir tanta molestia, convennero di eleggere alcuna cosa che fusse comune misura del valore di tutte, e 'l misurato col misurante si permutasse; cioè che ciascheduna cosa valesse un tanto di quella; e un tanto di quella si desse e si ricevesse in pagamento, e per equivalente in ciascheduna45 [Bernardo Davanzati, Notizia de' cambi, in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica, [Collezione Custodi], parte antica, vol. II, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965, p. 52.]».

Si presenta a questo punto il problema di definire il valore dei metalli destinati agli usi monetari. La soluzione di questo problema non poteva però prescindere da un'analisi del valore di tutte le cose, analisi che avrebbe permesso a Davanzati di formulare e risolvere (non per la prima volta nella storia del pensiero economico46 [Il paradosso del valore era già stato esaminato in modo accettabile a partire dal Trecento nelle opere di Odofredo Denari e Francesco Petrarca. Il giurista bolognese, affrontando questioni connesse alla tematica successoria, ipotizza il caso di un legato consistente in una libbra d'oro. Definire il legato in questione «parvum» o «magnum» è possibile solo in relazione al legatario. Una libbra d'oro rappresenta una misera cosa per una persona ricchissima mentre non altrettanto può dirsi quando tale somma è devoluta ad un uomo povero. L'esame del valore della libra d'oro è esaminato anche sotto l'aspetto della rarità: il valore di questa quantità di metallo varia in rapporto alla quantità totale di quel metallo presente nella regione, quel legato è cioè un «magnum legatum» nelle regioni in cui l'oro scarseggia ed un «parvum legatum» dove l'oro abbonda. Allo stesso modo si esprimeva Francesco Petrarca il quale afferma perentoriamente che «dalla scarsezza delle cose dipende il prezzo che l'uom loro impone». Il poeta toscano dimostrava attraverso l'esempio dell'acqua, normalmente utilissima, ma di modesto valore, divenuta «obietto d'invidia» all'esercito romano impegnato nelle deserto libico, e del famosissimo topo «stimato» una grande quantità d'oro durante l'assedio di Casilino, che il valore dipende dal concorso di due fattori: l'utilità e la rarità (O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, vol. 2, tomo secondo, cit., pp. 1080-1082).]) quello che comunemente viene chiamato il "paradosso del valore", per il quale beni indispensabili come l'acqua non avevano valore di mercato, mentre, al contrario, un diamante aveva un prezzo elvatissimo nonostante la scarsa utilità. Per Davanzati il problema poteva essere risolto solo affermando che l'utilità di un bene è la fonte del suo valore d'uso (elevatissimo per l'uovo che «valeva a tener vivo il conte Ugolino nella torre della fame ancora il decimo giorno che tutto l'oro del mondo non valeva47 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., pp. 31-32.]», molto basso per l'oro(; la scarsità è alla base del suo valore di scambio (elevato per l'oro, scarso per l'uovo; ma in condizioni del tutto eccezionali, come l'assedio di Casilino, anche beni normalmente senza alcun valore possono diventare oggetto di scambio come un topo che in quell'occasione «fu venduto dugento fiorini per lo gran caro, e non fu caro; poiché colui che lo vendé moriò di fame, e l'altro scampò48 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 34.]»).

Nonostante la brillante teoria del valore formulata, lo scrittore fiorentino supera la concezione per la quale il valore della moneta era riconducibile esclusivamente a quello dei metalli preziosi. Dopo un attento esame della Lezione è stato infatti rilevato che tale valore è «un rapporto di scambio - variabile continuamente - tra la moneta e le merci49 [O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da Davanzati alla seconda metà del secolo scorso, pubblicato la prima volta in: «Rivista Bancaria», 1968, ed ora in: Investigazioni nella storia del pensiero economico, Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri, 1980, p. 250.]». È principalmente la funzione esplicata dalla moneta e non la merce che la costituisce che determina il valore della stessa.

Un brano dello stesso scrittore ci consente di avvalorare questa ipotesi; egli afferma infatti che «onde a veder giornalmente la regola e proporzione aritmetica che le cose hanno tra sé e con loro, bisognerebbe di cielo o qualche altissima vedetta poter guardare tutte le cose che sono e che si fanno in terra, o veramente le loro immagini ripercosse nel cielo come in verace spegli annoverare, perché noi gitteremmo nostro abaco e diremmo: tanto oro ci ha in terra, tante cose, tanti uomini, tanti bisogni tanti bisogni, tanti ciascheduna cosa n'appaga, tant'altre cose vale; tant'oro vale50 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 35.]».

Attraverso la proposizione che abbiamo sopra trascritto Davanzati vuole indicare prima di tutto che la mutevolezza dei bisogni e delle preferenze degli uomini provoca la variazione continua dei prezzi dei beni. È possibile tuttavia una determinazione, seppur approssimativa, di questi attraverso l'analisi della «correlazione tra elementi esistenti nell'universo economico51 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 2, tomo secondo, p. 1085.]», che secondo autorevoli interpreti52 [Vedi ad esempio: J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi ..., cit.; J. V. Le Branchu, La Théorie Quantitative de la Monnaie XVIe Siècle, in: «Revue d'économie politique», 1934; G. Arias, Les précurseurs de l'économie monétaire en Italie: Davanzati et Montanari, in «Revue d'économie politique», 1922, (citazioni bibliografiche tratte da: O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da ..., cit.).] costituirebbe la prima formulazione accettabile della teoria quantitativa della moneta. Va precisato che, in sede di storia del pensiero economico è importante distinguere tra la semplice nozione quantitativa - cioè il riconoscimento che «la quantità di moneta ha influenza sui prezzi53 [O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da ..., cit., p. 249.]» - e la vera e propria teoria quantitativa ovvero quando «sotto forma di relazioni matematiche, si intende parlare di variazioni esistenti tra la quantità ed i prezzi54 [O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da ..., cit., p. 249.]».

Il nome dell'autore che formulò per la prima volta la teoria quantitativa ha provocato molte controversie tra gli storici del pensiero economico, che sono però concordi nell'indicare nella seconda metà del XVI secolo il periodo in cui venne formulata, sia pure in maniera approssimativa. Secondo alcuni storici55 [Vedi ad esempio: P. Hauser, Un précurseur, Jean Bodin, Angevin, in: «Annales d'histoire économiques et sociales», 1931; J. Bodin de Saint Laurent, Les idées monétaires et commerciales de Jean Bodin, (thèse), Bordeaux, 1907, (citazioni bibliografiche tratte da: O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da ..., cit.).] colui che per primo espose in modo completo la teoria quantitativa fu Jean Bodin. Al filosofo di Angers, che si occupò di questioni monetarie sia nella suo scritto maggiore, Les six Livres de la Républiques, sia nella famosa Reponse aux paradoxes de Monsieur de Malestroit touchant l'enrichissement de toutes choses et le moyen d'y remédier, viene riconosciuto questo merito principalmente per aver individuato nelle importazioni massicce di metalli preziosi dal nuovo mondo la causa dell'aumento dei prezzi. Le sue idee monetarie erano dirette essenzialmente a confutare quanto sosteneva il signore di Malestroit che imputava «l'estrange enrichissement que nous voyons pour le iourd'hui de toutes choses56 [Citazione tratta da: L. Einaudi, Introduzione ai Paradoxes inédits du Seigneur de Malestroit touchant les monnoyes avec la Response du President de La Tourette, a cura di L. E., Torino, Einaudi, 1937, p. 20.]» alle variazioni nominali delle monete operate dai sovrani. Luigi Einaudi, che ha ricostruito magistralmente i termini della polemica tra i due scrittori francesi, ha dimostrato che le cause indicate da Malestroit ebbero una importanza preponderante, senza tuttavia negare validità a quelle indicate da Bodin il quale ebbe comunque «la virtù mentale nel vedere, sino dai primi inizi, quando la sua influenza era ancora scarsa, l'importanza che le cause reali avrebbero acquistato di lì a poco57 [L. Einaudi, Introduzione ..., cit., p. 25.]». Entrambe le tesi che avevano opposto gli autori francesi sono presenti nell'opera di Davanzati; egli pur non negando validità ai fattori reali (incremento della disponibilità di metalli preziosi), imputa l'aumento dei prezzi soprattutto alle cause nominali (alterazione delle monete).

La teoria quantitativa è avvalorata da un altro esempio che il Fiorentino utilizza per spiegare la circolazione della moneta, molto importante per comprendere la sua concezione innovativa e dal quale si evince che Davanzati intuì il concetto di velocità di circolazione della moneta. Invece di utilizzare il paragone secondo il quale il denaro è il nerbo della guerra, come avevano fatto la maggior parte degli scrittori mercantilisti che lo avevano preceduto, egli afferma che «par egli più acconciamente detto il secondo sangue; perché siccome il sangue, che è il sugo e la sostanza del cibo nel corpo naturale, correndo per le vene grosse nelle minute annaffia tutta la carne, ed ella 'l si bee, come arida terra bramata pioggia, e rifà e ristora quantunque di lei per lo calor naturale s'asciuga e svapora; così 'l danajo, ch'è sugo e sostanza ottima della terra, come dicemmo, correndo per le borse grosse nelle minute tutta la gente rinsanguina di quel danajo, che si spend'e via via continuamente nelle cose che la vita consuma; per le quali nelle medesime borse grosse rientra, e così rigirando mantiene in vita il corpo civile della repubblica58 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., pp. 37-38.]».

Ma il brano che ci permette di affermare che Davanzati comprese perfettamente l'importanza della quantità di moneta in circolazione in rapporto con i bisogni della circolazione è senza dubbio quello in cui sostiene che in tutti gli stati ci deve essere una certa «quantità di moneta che rigiri, come ogni corpo una quantità di sangue che corra, e che standosi nel capo o ne' grandi oppilata, lo stato ne cadrà in atrofia, idropisia, diabetica, tisico o simili mali59 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 38.]».

La lucida analisi dello scrittore fiorentino si conclude con la descrizione degli effetti dei disordini monetari. Pur riconoscendo che le massicce importazioni di metalli dal Nuovo Mondo avevano contribuito in maniera notevole all'aumento dei prezzi, egli riconduce il fenomeno soprattutto al peggioramento delle monete («il danno, lo scandalo60 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 39.]»). In queste pagine egli denuncia l'operato dei sovrani, i quali, non s'accorgevano che così facendo, oltre a danneggiare gravemente le «facultà de' privati», compromettevano irrimediabilmente anche le pubbliche entrate. Infatti, peggiorare la moneta significava diminuire la quantità di metallo pregiato in essa contenuto con l'effetto di un rincaro dei prezzi giacché «le cose in vendita si danno, perché ci venga quel tanto metallo solito e creduto esser nella moneta, e non tanti segni, o sogni, o pezzi di monete. Se con centonove pezzi oggi è quel medesimo ariento che soleva esser in cento, non bisogn'egli con 109 pagare quel che si pagava con 100?61 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 40.]».

Per l'abilità con cui mette in luce i danni che derivavano alla collettività a causa del «morbus nummaricus» Davanzati, anche se non utilizza gli strumenti del patrimonio giuridico - come ad esempio il principio della eguaglianza delle parti nei rapporti giusprivatistici - può essere assimilato ai giuristi laici. Come i giuristi che lo avevano preceduto, egli, per denunciare il danno che derivava ai singoli a seguito delle frequenti «mutationes monetarum», evidenzia in modo puntuale i disagi e le incertezze dei singoli operatori economici al momento di effettuare un pagamento (sia esso un mutuo pecuniario o una prestazione periodica).

Le soluzioni da lui formulate per risolvere simili problemi sono ispirate al "metallismo" più rigoroso (lo Stato, ad esempio, avrebbe dovuto perfino sostenere i costi di monetazione per eliminare ogni differenza tra il valore del metallo coniato ed il valore del metallo in pasta) e la sua conclusione sfiora il paradosso: egli, consapevole della estrema difficoltà di eliminare le frodi monetarie a causa della sfiducia da lui nutrita verso le istituzioni, afferma che «sarebbe forse meglio far senza, e spender l'oro e l'ariento a peso e taglio, come ne' primi tempi, e ancor oggi usano quei della Cina, i quali per arnesi in seno portano lor cesoje e saggiuolo, e non hanno a combatter che con la lega, la quale con la pratica e col paragone pur si conosce62 [Bernardo Davanzati, Lezione sulle monete, cit., p. 49.]».

7. La lezione monetaria del "fisico" Montanari

Geminiano Montanari pubblicò nel 1687 un trattato intitolato La Zecca in Consulta di Stato, al quale, la storiografia economica riconosce grandi meriti per i contributi innovativi apportati alla teoria del valore e della moneta.

L'impiego fecondo dei metodi sperimentali, utilizzati nelle scienze fisiche, nelle scienze economiche è senza dubbio il pregio maggiore della sua opera; il modello meccanico dei vasi comunicanti per descrivere i fenomeni monetari è l'esempio più illuminante della lezione di metodo data da Montanari. Per questi motivi Carl Pribram lo colloca tra i maggiori esponenti di quella corrente di pensiero da lui chiamata «mercantilismo baconiano», anche se nella formazione del Modenese furono determinanti, forse più del razionalismo inglese, le concezioni filosofiche di Galileo Galilei.

Nonostante i numerosi aspetti innovativi che la caratterizzano, anche l'opera di Montanari va inserita all'interno del lungo dibattito monetario, che, a partire dal Medio Evo, aveva impegnato i giuristi, soprattutto italiani; i termini di quel dibattito, pur rimanendo inalterati, sono presentati sotto una nuova forma che tiene conto delle numerose conquiste che le scienze avevano fatto proprio in quel secolo. Il punto di partenza dell'analisi economica di Montanari sono le teorie del valore e della moneta formulate un secolo prima da Davanzati, reinterpretate attraverso intuzioni veramente moderne.

Lo scienziato modenese definisce la moneta «qualunque metallo o altra cosa, che coniata o in altro modo autenticata dalla pubblica autorità serve di prezzo e misura delle cose contrattabili per facilità di commercio63 [Geminiano Montanari, Della Moneta. Trattato mercantile (il titolo originale, come è noto è: La Zecca in Consulta di Stato) in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte antica, vol. III, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965, p. 53.]», definizione che contraddice parzialmente quella data da Davanzati, per il quale solo i metalli preziosi erano adatti agli usi monetari. Egli pur riconoscendo che i metalli preziosi, come l'oro e l'argento, sono quelli più comunemente usati non assolutizza il fenomeno.

Servendosi di numerosi esempi, tratti dalla storia e dalle notizie che riceveva sui paesi più lontani, sottolinea il carattere convenzionale dello strumento monetario e precisa che la caratteristica fondamentale della moneta non è la materia che la costituisce ma il valore che ad essa viene conferito dal principe; a questo proposito egli ammette esplicitamente che l'«essenza e la sua ragione formale (come dicono) nell'essere a tale officio destinata ed autorizzata dal principe, sicché almeno nei luoghi, ov'egli comanda, ella corra, e come tale, serva di prezzo e misura del valore delle cose contrattabili64 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 33; il passo in questione dimostra che Montanari non può di certo essere collocato tra i «metallisti intransigenti» come ha fatto Schumpeter (Storia dell'analisi ..., cit., p. 355).]»; tuttavia i metalli preziosi avevano la caratteristica di essere accettati e riconosciuti dalla maggior parte degli uomini.

In questo modo l'analisi di Montanari si allontana dal metallismo degli autori che lo avevano preceduto, senza però rinnegarlo completamente; l'uso di monete coniate con metalli nobili - universalmente accettate e quindi particolarmente adatte ai traffici internazionali - viene conciliato con l'utilizzo che in determinate condizioni, viene fatto di quelle che potremmo chiamare "monete segno", valide solo all'interno dello Stato.

Lo strumento monetario, oltre a servire da grandezza comune per quantificare i valori delle merci, serve a misurare le passioni ed i desideri degli uomini ma, scrive Montanari, poiché «è proprio ancora delle misure avere siffatta relazione colle cose misurate, che in certo modo la misurata divien misura della misurante, ond'è che siccome il moto è misura del tempo così il tempo sia misura del moto stesso; quindi avviene che non solo sono le monete misure de' nostri desiderj, ma vicendevolmente ancora sono i desiderj misura delle monete stesse e del valore; nè tanto rari sarebbero nel mondo l'oro e l'argento, se minor copia di brame si trovasse negli uomini a comprare, per soddisfare le quali sono essi necessari65 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., pp. 41-42.]»

La relazione tra «le comodità degli uomini, che sono fra loro in commercio» e «l'oro, l'argento il rame» che aveva caratterizzato l'analisi di Davanzati, viene riproposta dal Modenese. I desideri da soddisfare «pongono tra loro gli uomini in relazione di scambio; funzione della moneta è quella di realizzare tali rapporti economici. Ora se i desideri degli individui sono misura del valore delle cose, alla quale corrisponde la moneta, ne segue che i desideri ed i bisogni sono misura del valore delle monete non meno che di quello dei beni; e viceversa le monete sono metro del bisogno e del desiderio, come anche del valore delle cose66 [O. Nuccio, I contributi di G. Montanari alle teorie del valore e della moneta (Nel terzo centenario della morte), in: «Rivista di Politica Economica», Anno LXXVII, fasc. XII, dic. 1987, p. 8.]».

L'episodio storico, già citato da Petrarca e Davanzati, del prezzo pagato per un topo durante l'assedio di Casilino, viene ulteriormente sviluppato. Al posto della città assediata Montanari considera una intera regione isolata dal resto del mondo, come un'isola in mezzo all'oceano; in una situazione del genere accadrà che «quanto maggior numero di monete correrà in commercio entro il recinto di quella provincia, in proporzione delle cose vendibili che vi sono, tanto più care quelle saranno». E «se cara può dirsi una cosa perciocché vaglia molto oro, in paese dove l'oro abbondi e non piuttosto vile debba in quel caso chiamarsi l'oro medesimo, di cui tanta porzione sia stimata quanto un'altra cosa, che altrove più vile viene considerata67 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 48.]».

L'esempio serve a dimostrare che abbondanza e scarsità, non sono valori assoluti, ma dipendono dalle estrema mutevolezza dei desideri degli uomini e dalla stima che essi hanno delle cose. Come abbiamo visto la moneta misura, anche se in maniera approssimativa, questi desideri. Il valore della moneta, come quello di tutte le altre merci, dipende dalla disponibilità dei metalli e dall'uso che di questi viene fatto, giacché «è forza che vada variandosi la valuta loro, non conforme la quantità loro, che se dalle viscere de' monti se ne estrae alla luce, ma secondo la quantità che da' lussi mondani n'avanza68 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 94.]».

Il principio quantitativo, che gli permette di spiegare il prezzo attraverso il rapporto tra la quantità di moneta in circolazione e le merci disponibili, viene formulato in modo molto rigoroso, anche con il ricorso ad un esempio tratto dalle scienze fisiche. Montanari, per illustrare «il modus operandi della formazione del prezzo all'interno di un ampio mercato69 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 2, tomo secondo, p. 1576.]» ricorre infatti «all'analogia fra il comportamento dell'acqua nei vasi comunicanti ed il flusso internazionale di oro ed argento70 [O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, cit., vol. 2, tomo secondo, p. 1577.]».

Dopo aver ribadito che il rapporto tra quantità di moneta e quantità di merci determina il livello dei prezzi lo scienziato modenese afferma, così come aveva fatto Jean Bodin, che le ingenti importazioni di metalli preziosi dal Nuovo Mondo erano la causa principale dell'inflazione che l'Europa sperimentava in quel periodo. Recenti studi hanno infatti dimostrato che l'aumento dei prezzi, contrariamente a quanto era avvenuto nel periodo in cui scrisse Davanzati, raggiunse dimensioni ragguardevoli ed era causato principalmente dalle importazioni di metalli preziosi71 [A questo proposito vedi: F. Braudel-F. C. Spooner, I prezzi in Europa dal 1450 al 1750, in Storia economica Cambridge, trad. ital., Torino, Einaudi, 1975.].

Montanari utilizza la nozione quantitativa per dimostrare l'identità di funzionamento tra un sistema che utilizza monete coniate con metalli pregiati ed un sistema che utilizza monete prive di valore intrinseco; ricorrendo nuovamente all'esempio di una regione isolata, ipotizza che il principe potrebbe «valutare le monete quanto a lui piacesse, e fossero di che materia si volessero72 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 104.]» senza compromettere il valore di scambio delle stesse, formulando in questo modo un modello, per la verità già intuito dal giurista milanese Raffaele Fulgosio, che la maggior parte degli storici del pensiero economico ha ingiustamente attribuito a David Ricardo, le cui opere furono scritte ben centocinquanta anni dopo quelle dello scienziato modenese.

Se si esclude però questo caso particolare i sovrani avevano l'obbligo di «valutar le loro monete giusta l'intrinseca valuta e bontà loro, senza vantaggio della propria borsa in altro che in quel poco di signoraggio che oltre la spesa di zecca scarsamente si pigliano73 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 106.]».

Il sovrano, tuttavia, conservava il potere di stabilire il valore delle monete di piccolo taglio che servivano per i pagamenti minuti, chiamate da Montanari monete di viglione, il cui valore era però puramente fittizio (per questo erano «quasi da prìncipi confinanti bandite e rifiutate74 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 109.]»), essendo coniate con metalli di bassa lega ed emesse solo dopo una attenta valutazione delle esigenze del mercato in misura tale («piuttosto scarsamente che con eccesso75 [Geminiano Montanari, La Zecca in ..., cit., p. 107.]») da non compromettere i delicati equilibri della circolazione monetaria e provocare un danno «così del popolo che del principe stesso». Questa concezione riflette quella formulata da Antonio Serra che, trattando delle monete di bassa lega, aveva affermato che «la forma e non la materia apporta apportasse d'utile», e che nell'emetterla il principe non deve superare «quelle quantità che sono bastanti per cambiare conforme la grandezza dello stato76 [Antonio Serra, Breve trattato delle cause che possono far abbondare i regni d'oro e d'argento dove non sono miniere, in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica, parte antica, vol. III, Milano, Destefanis, 1803, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965, p. 147. Nonostante l'originalità di queste posizioni la dottrina monetaria del Cosentino è caratterizzata da posizioni rigidamente metallistiche in quanto nelle sue opere riconduce il valore della moneta al metallo in essa contenuto.]»

I criteri che regolavano l'emissione di monete coniate con metalli preziosi erano completamente diversi. Le zecche del principe dovevano tener conto del peso e della bontà dell'oro e dell'argento che formano le monete, nonché del rapporto commerciale esistente tra i due metalli. Montanari reputa quest'ultima una condizione molto importante, che qualora non venga rispettata provocherebbe «sconcerti grandi» nello Stato; infatti, la difformità del rapporto ufficiale tra le monete d'oro e quelle d'argento e il rapporto commerciale dei due metalli preziosi avrebbe reso difficile il funzionamento regolare del sistema monetario bimetallico perché si sarebbero verificati gli effetti di quella che viene chiamata "Legge di Gresham".

Lo scienziato modenese è forse il primo che espone il concetto di moneta immaginaria e le operazioni che permettevano, attraverso il peggioramento di questa, l'alzamento delle monete reali. La sua descrizione è tuttavia diversa da quella presente negli scritti monetari del secolo successivo; esso è collocabile infatti nel primo grado di quell'ordine di «complessità logica crescente fra i concetti di moneta di conto, di moneta immaginaria, di moneta ideale» ipotizzato da Pasquale Jannaccone il quale, come abbiamo visto (v. capitolo primo) ha affermato che per «Montanari, giurista e matematico, la moneta immaginaria è null'altro che la moneta di conto, sia che non esista realmente, sia che esista in concreto ma corra con un valore diverso dall'intrinseco77 [P. Jannaccone, Moneta e lavoro, cit., p. 32.]». La moneta immaginaria era quindi «ombra o immagine», il «nudo nome» che «muta giammai numero»; in altre parole lo strumento con il quale era possibile dare un valore alle monete reali.

Una parte importante dell'opera è dedicata alle cause dell'alzamento. La sproporzione tra le monete d'oro e quelle d'argento rispetto al rapporto commerciale tra i due metalli, era, come già abbiamo avuto modo di vedere, una delle cause che spingeva i sovrani a cambiare il valore in lire immaginarie delle monete reali. Ma, secondo Montanari, erano le guerre e soprattutto le impellenti necessità finanziarie da queste generate che spingevano i prìncipi ad alzare il valore delle monete.

Le conseguenze negative di queste alterazioni sono esposte in modo estremamente dettagliato attraverso il continuo ricorso a circostanze reali. Egli innanzitutto evidenzia che, siccome l'entità dei tributi veniva generalmente espressa in moneta immaginaria, l'alzamento delle monete reali provocava inevitabilmente una riduzione proporzionale delle entrate del principe. Ma i continui alzamenti effettuati andavano soprattutto a detrimento dei singoli titolari di redditi fissi (sia grandi rendite che semplici salari) i quali assistevano impotenti alla riduzione delle loro entrare pagate con un numero sempre minore di monete reali. Gli «sconcerti grandi», primo fra tutti l'aumento dei prezzi, provocati dalle manipolazioni monetarie avrebbero colpito tutti i settori dell'economia, essendo questi interconnessi tra loro come vasi comunicanti.

8. La comparsa del concetto di velocità di circolazione della moneta nel Discorso di Bandini

Va infine segnalata l'opera78 [Discorso economico scritto dall'arcidiacono S. A. Bandini patrizio senese, nell'anno 1737 e pubblicato nell'anno corrente 1775, dopo la di lui morte seguita nel 1760, Firenze, Cambiagi, 1775, in Scrittori Classici Italiani di economia politica [Collezione Custodi], parte moderna, vol. I, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1966.] del senese Sallustio Antonio Bandini nella quale il problema monetario «è parte di un discorso più ampio e fondamentale, rivolto a mettere sotto accusa la politica dei prezzi, sostenuta per favorire gli interessi cittadini a danno delle classi agricole79 [O. Nuccio, Enunciazioni della teoria quantitativa della moneta da ..., cit., p. 261.]». Il contributo più rilevante portato dal senese alla teoria monetaria è quello di aver per primo in Italia formulato il concetto di velocità di circolazione della moneta.

Applicando all'economia i princìpi metodologici delle scienze fisiche, l'abate senese sostiene che i fenomeni economici potevano essere assimilati ai movimenti meccanici, ed in particolare che il movimento dell'oro nel commercio era come «una pianola in mano di un fanciullo che pare faccia un cerchio continuato di fuoco, se venga raggirata con velocità. Così una piccola somma d'oro, se si raggiri velocemente da una mano in un altra, abbaglia l'occhio, e par che moltiplichi se medesima. Perché un solo scudo che passerà da una in altre mani cento volte in un mese, mantenendo ugualmente il commercio che con diversi scudi, che non facessero in questo tempo altro che un solo passaggio nella seconda mano, farà figura di cento scudi, provvedendo ciascheduna di queste cento persone, che lo presero, del loro bisogno per l'intiero valore di uno scudo. Posto tal principio ne segue che può apparire arricchito un paese, senza che vi sia venuta nuova moneta, ma solamente coll'essersi messa in maggior moto quella che già vi era, di modo che mai non stagnandosi passi per le mani di ciascheduno in quella quantità che gli bisogna spendere secondo il proprio grado80 [Discorso economico ..., cit., pp. 141-142.]».

Gli storici del pensiero economico, in riferimento al concetto di velocità di circolazione della moneta, hanno trascurato l'opera di Bandini, il cui contributo è stato senza alcun dubbio rilevante. Anch'egli come il francese Cantillon, il quale fu il primo ad utilizzare la parola «vitesse de la circulation», parte dal presupposto della necessità di un equilibrio tra il valore delle derrate e quello della moneta. Dopo aver spiegato che il prezzo può essere spiegato per mezzo della legge della domanda e dell'offerta, dimostra che nei periodi di eccessiva abbondanza diminuisce il prezzo dei grani ed aumenta quello della moneta, mentre al contrario quando nei periodi di scarsità diminuisce il prezzo dei grani ed aumenta quello della moneta.

Sempre in relazione al concetto di velocità è molto interessante l'esempio che egli fa a proposito di un denaro che nelle mani dei poveri poteva servire ad un grandissimo numero di contrattazioni con un effetto stimolante per il commercio e l'economia pari a quello dei grandi capitali; afferma, infatti, che «pochi scudi e fors'anche poche lire tenute da costoro in continuo moto, raggirate sempre una o più volte al giorno nel vendere o nel comprare, profittano ad essi più che non avrebbe fatto un capiatale che cammina a passo lento81 [Discorso economico ..., cit., p. 149.]».

 
 
 
 
 

 
 

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