CAPITOLO I

Le caratteristiche principali dei sistemi monetari da Carlomagno alla rivoluzione francese

1. Premessa

Gli scritti monetari anteriori al XIX secolo riescono generalmente di difficile esegesi soprattutto per due motivi: 1) la mancanza di indagini storiche sistematiche in grado di fornire gli elementi necessari ad interpretare il pensiero degli scrittori che a partire dal Basso Medio Evo presero parte al dibattito sul quale è stata costruita la teoria monetaria (questo problema verrà trattato nei capitoli seguenti); 2) la diversità dei sistemi monetari vigenti prima della Rivoluzione Francese rispetto a quelli odierni.

Sembra quindi necessario indicare, seppure in maniera sintetica, quali furono gli elementi caratterizzanti i sistemi monetari in vigore fino agli inizi del secolo decimonono, perché «come tutte le parti dell'Economia politica, l'argomento della moneta ha una doppia storia. V'è una serie di fatti a percorrere nella sfera della vita sociale; ed una serie di dottrine, scoperte nella solitudine de' sapienti, esposte, combattute, dannate talvolta, e finalmente, più o meno tardi, accettate. L'importanza e l'opportunità delle dottrine trova la sua ragione ne' fatti: non si saprebbe comprendere come mai, per tre secoli e più, i nostri antenati abbiano accumulate tante opere sulla moneta, se si ignorasse che cosa nel corso de' secoli era nel mondo avvenuto, intorno al pratico regime della moneta1 [F. Ferrara, Della Moneta e dei suoi surrogati. Prefazione al vol. VI, serie prima, della Biblioteca dell'Economista, Torino, Pomba (Un. Tip. Ed.), 1856, e ora in Opere Complete, a cura di B. Rossi Ragazzi (voll. I - IV) e F. Caffè, vol. V, parte IV, Roma, Istituto grafico tiberino, 1961, Vol. V, p. 4.]».

L'economia monetaria si affermò parallelamente alla espansione dei traffici commerciali e costituì un elemento fondamentale della crescita economica, anche se il baratto continuò ad essere praticato soprattutto nell'ambito delle economie locali2 [La storiografia nel tentativo di spiegare la progressiva affermazione dello strumento monetario ha utilizzato le espressioni «economia naturale ed economia monetaria». Alfons Dopsch, al quale va il merito di aver fissato i termini del problema, ha giustamente osservato che «l'economia naturale e l'economia monetaria non sono due forme economiche che si susseguono nel tempo, ma appaiono l'una accanto all'altra, senza che la prima sia da ritenere testimonianza di una civiltà primitiva, l'altra la specifica espressione di una civiltà più elevata» (Economia naturale ed economia monetaria nella storia universale, trad. ital., Firenze, Sansoni, 1967, p. 265). Queste formule, introdotte in un clima intellettuale favorevole all'evoluzionismo, presentano però limiti notevoli, caratteristici di ogni classificazione troppo rigida. Tuttavia «questi quadri teorici, spogliati della loro pretesa d'interpretare un corso lineare e progressivo degli eventi, possono fornire una buona chiave di lettura della storia d'Italia, capace di gettar luce su certe zone d'ombra, di sollevare problemi di aprire prospettive nuove»; in altre parole, non si tratta «di ripercorrere in un ottica diversa da quella evoluzionista, le fasi del passaggio dall'una all'altra formazione economica, quanto di fissarne in concreto le peculiarità, gli elementi distintivi che le condizionano. Ma anche le continuità, le sopravvivenze, le complementarità» (Ruggero Romano e Ugo Tucci, Premessa a Storia d'Italia. Annali 6. Economia naturale, economia monetaria. A cura di R.R. e U.T., Torino, Einaudi, 1983, p. XXII).]. L'utilizzo crescente della moneta metallica poneva però gravi problemi. Le monete che circolavano erano diverse nel peso, nel titolo e nel conio; anche le monete che potevano sembrare uguali erano spesso rese irregolari dal logoramento e dall'attività dei tosatori. La presenza delle monete straniere, anch'esse degradate ed estremamente diverse, e la fiorente industria dei falsari, avvantaggiata dalla facilità con cui si potevano riprodurre i coni contribuivano decisamente a complicare la situazione.

Pertanto, bisogna pensare alla pratica monetaria del tempo come se «fosse fondata su un perpetuo sistema di cambi, fermo restando, d'altra parte che il valore delle differenti monete nei loro reciproci rapporti derivava non solo dal loro tenore metallico, ma anche dalla domanda più o meno forte che per le trasferte lontane in certi momenti veniva fatta delle specie più in uso nel tale o talaltro paese3 [M. Bloch, Lineamenti di una storia monetaria europea, trad. ital., Torino, Einaudi, 1981, p. 61.]».

Questo stato di cose si riflette sulle trattazioni monetarie, le quali non fanno altro che rispecchiare il disordine esistente e, molto spesso, al contrario di quanto accade per la più «accostevole» materia dei volumi commerciali ed annonari, irritano il lettore «desideroso di leggere intendendo bene quel che legge». Ciò è dovuto sia al fatto che gli scrittori non indugiano «nell'esporre nozioni che ad essi sembravano ovvie e di cui non sappiamo niente», che all'utilizzo di termini tecnici, «di cui invano cerchiamo in manuali specialissimi od inesistenti la definizione precisa». Con la conseguenza che «a noi che viviamo in un altro mondo, il loro linguaggio abracadabra per un po' ci fa aggirare in una selva oscura4 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese, in: «Rivista di Storia Economica», anno I (1936), n. 1, ed anche in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1953, p. 236. Il disordine monetario non ha attirato solo l'attenzione degli storici ma fu denunciato anche dagli scrittori dell'epoca; Gilles Li Muisis, uno scrittore francese del Trecento, ad esempio, scriveva «En monnaies est li cose moult obscure Elles vont haut et bas, se ne set-on que faire Quand on quide wagnier, on troeve le contraire ...» (citazione tratta da: M. Bloch, Lineamenti ..., cit., p. 51); mentre Luigi Einaudi, parlando di «selva», ha utilizzato lo stesso termine di un Anonimo Milanese del Settecento, il quale intitolava la prima parte di un suo breve trattato «Selva di massime, che hanno servito di fondamento alla idea di Sistema delle Monete» (compreso nella parte terza del De monetis Italiæ, vedi di seguito).]».

Le difficoltà che ancora sussistono sono dovute principalmente alla mancanza dell'«auspicato» libro intorno alle questioni monetarie italiane anteriori al secolo XIX; libro che dovrebbe essere corredato di «glossari tecnici ed economici, di tabelle di rapporti fra tagli, pesi, corsi dei metalli in verghe nel commercio e in zecca e corsi ufficiali ed in abusivo, delle relative monete coniate, di tariffe di signoraggio nelle sue diverse specie5 [L. Einaudi, Corporazioni d'arti e mestieri, in: «Rivista di storia economica», anno V (1940), n. 4, p. 275.]».

Il difficile compito di scrivere questo libro dovrebbe spettare all'«economista, ferrato nella teoria monetaria moderna e nel tempo stesso atto ad inventare schemi diversi da quelli attuali, atti a far capire i fatti del secolo XVIII, il quale dedicasse parecchi anni della sua vita a dipanare l'intricata matassa6 [L. Einaudi, Corporazioni d'arti e mestieri, in: «Rivista di storia economica», anno V (1940), n. 4, p. 275.]».

2. "Moneta di conto", "moneta immaginaria" e "moneta ideale"

L'analisi per districare (sia pure parzialmente) l'«intricata matassa» delle trattazioni monetarie dovrebbe partire dalla fondamentale distinzione fra unità monetaria di contrattazione ed unità monetaria di pagamento, «distinzione che non nacque perfetta ad un colpo, né fu osservata sempre e dappertutto; ma fu abbastanza generale e duratura per dover essere reputata fondamentale7 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 237.]».

Da questa distinzione scaturiscono immediatamente una serie di difficoltà che derivano dall'uso dei termini moneta di conto, moneta immaginaria e moneta ideale impiegati per indicare le unità monetarie non riferite ai pagamenti, utilizzate cioè per tenere i conti, per fissare i prezzi delle merci e dei servizi e per contrarre obbligazioni di ogni tipo; unità monetarie che erano, come ha osservato Marc Bloch «l'étalon des paiements sans en être l'instrument8 [M. Bloch, Le probleme de la monnaie de compte, in: «Annales d'histoire économique et sociale». Tome dixième. Anneé 1938. Paris, Armand Colin, 1938. Johnson Reprint Corporation. New Jork . London, 1972, p. 359.]».

I tentativi (più o meno riusciti) fatti dagli storici del pensiero monetario per spiegare il significato di queste parole molto spesso fanno parte di uno schema generale di comprensione dei meccanismi di funzionamento dei sistemi monetari anteriori alla rivoluzione francese. Il risultato è stato una interpretazione che, nello sforzo di fornire schemi facilmente interpretabili ed omnicomprensivi, non ha tenuto sufficientemente conto delle differenze che si trovano in ciascuna delle trattazioni monetarie anteriori al secolo XIX.

Per questi motivi riteniamo opportuno esaminare, non solo per quello che riguarda la fondamentale distinzione tra unità monetaria di contrattazione ed unità monetaria di pagamento ma in una prospettiva di generale comprensione dei princìpi che informavano il sistema monetario anteriore alla rivoluzione francese, quelle che furono le spiegazioni degli scrittori dell'epoca, i quali «per viverci in mezzo l'avevano familiarissimo».

3. Il concetto di «lira immaginaria» elaborato da Pompeo Neri

Tra gli scrittori dell'epoca uno dei più rappresentativi è, a nostro avviso, il giurista Pompeo Neri, «nitidissimo tra i monetaristi italiani del XVIII secolo», che nel 1751 pubblicò le Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete9 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete e la difficoltà di prefinirlo e sostenerlo. Presentate a S. Ecc. il Sig. Conte Gian-Luca Pallavicini, ecc., Milano, Malatesta, 1751, in Filippo Argelati De monetis Italiæ. Variorum illustrium virorum Dissertaziones ecc., pars IV, Milano, in Regia Curia in Ædibus Palatinis, 1752, ristampa anastatica Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1983, ed anche in Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], parte antica, vol. VI, Milano, Destefanis, 1804, ristampa anastatica a cura di O. Nuccio, Roma, Bizzarri, 1965.].

Lo scrittore e giurista toscano sosteneva che la identità di nomi tra le monete ed i pesi era dovuta all'uso che gli uomini avevano sempre fatto dei metalli preziosi; avevano ritenuto cioè fondamentale, per distinguere le masse di siffatti metalli usate negli scambi, di assegnare loro un nome corrispondente a «quello resultante dal distintivo sostanziale, e necessario all'uso per cui erano state fabbricate».

Neri sostiene che finché durò la corrispondenza tra i nomi delle monete e quelli dei pesi «il vocabolario della moneta fu chiarissimo». I Romani violarono per primi questa corrispondenza quando coniarono «Monete nuove con minor quantità di Metallo, lasciando stare alle Monete i consueti nomi dei pesi10 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 125.]» compromettendo irrimediabilmente questa chiarezza. Da quel momento in poi «i nomi delle Monete rimasti grammaticalmente i medesimi, perderono il loro significato, e quel, che è peggio, le quote, e gradi del valore di esse Monete perderono la certezza, che ricevevano dal Campione dei pesi11 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 125.]».

Alla valutazione delle monete si accompagnò così una grande incertezza. Si cominciò a dire che «una moneta maggiore vale dieci monete mediocri, una moneta mediocre ne vale otto delle minori, e una minore ne vale dodici delle minime», si avvertì cioè la mancanza di un campione fisso che provocò gli stessi effetti che avrebbe provocato «sentir dire, che una Picca è lunga quattro Stiletti, e uno Stiletto quattro Spilli, senz'aver riferita la lunghezza di alcuni di questi corpi».

La introduzione in Italia dei nomi lire, soldi e denari avvenne per opera di Carlomagno, il quale, per correggere la «confusione nella materia monetaria», riprese «l'antico linguaggio e l'antica regola», fece in modo che al nome della moneta corrispondesse la quantità di metallo che esso indicava. Ciò fu ottenuto «tanto monetando la libbra di peso, tanto servendosene di Campione per valutare le altre monete reali sopra la proporzione che avevano con la libra intiera12 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 127.]».

I successori di Carlomagno non riuscirono a difendere dalle «depravazioni» le monete che si allontanarono rapidamente dal campione della libbra di peso. Le città italiane, ad esempio, pur continuando ad usare il nome introdotto dal monarca francese, stabilirono arbitrariamente il peso delle proprie monete che «generalmente si trovarono di gran lunga inferiori al peso naturale della libbra, sicché la Lira diventò ben presto nome non di peso, ma di moneta, e di moneta che in diversi Paesi si coniava con diversa impronta e con diversa quantità di metallo».

La diversità delle monete rese necessario indicare nei contratti con quali lire si stipulava; specificare cioè se si trattava di lire di una città o di lire di un'altra. Spesso alcune risultavano sopravvalutate rispetto alle altre perché erano state meno delle altre sottoposte a processi che ne riducevano il contenuto metallico oppure perché più ricercate in quanto coniate in città fiorenti dal punto di vista dei traffici mercantili.

L'inclinazione perpetua dei sovrani a peggiorare le monete fu la causa di una ulteriore distinzione. Per differenziare una classe di monete da un'altra «nacquero dopo le lire di grossi, le lire di piccoli, e le lire di terzoli, ciascheduna delle quali aveva diversi gradi di valore perché veniva composta di diverso metallo13 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 127.]».

L'utilizzo di diverse categorie di lire fu abbandonato rapidamente giacché «per regolare i conteggi tanto pubblici che privati, tanto mercantili, che domestici» era necessaria una unica «moneta di conteggio», con «un grado di valore uniforme». Sopravvisse così la lira di terzoli e cioè la moneta più piccola, la più adatta a fungere da unità di misura.

Tuttavia i continui svilimenti a cui nei secoli fu sottoposta la lira impoverirono la quantità di metallo in essa contenuta in misura tale da impedirne perfino la coniazione; essa «restò nella maggior parte dei luoghi questo nome privo di soggetto reale, ma essendo gli Uomini accostumati a spiegare i gradi contrattabili del valore sotto il nome di Lire, restò nonostante questo nome in uso per denotare una moneta immaginaria, che non era altro che una parte quotativa delle monete reali, che effettivamente si coniavano, nel modo appunto, che la nostra lira corrente non esiste in natura, e non è che una quota delle monete che in oggi si coniano14 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 128.]».

Lo scrittore toscano delinea con estrema chiarezza sia il significato di moneta di conto che quello di moneta immaginaria; la prima riconoscibile perché effettivamente coniata e sottoposta a continua degradazione, mentre la moneta immaginaria, benché con funzioni assimilabili a quelle della moneta di conto e sottoposta anch'essa a continua degradazione, viene identificata con un nome che indica una parte «quotativa» delle monete reali con le quali era in costante riferimento.

L'esame dei concetti in questione viene ulteriormente sviluppato attraverso l'introduzione della distinzione tra «moneta immaginaria corrente» e «moneta immaginaria di banco»15 [In questo caso Neri «meglio di ogni suo contemporaneo aveva visto e spiegato la progressione logica, teorizzata due secoli dopo da Jannaccone» (O. Nuccio, Pompeo Neri, Appendice al volume VII, parte antica, Scrittori Classici Italiani di Economia Politica [Collezione Custodi], ristampa anastatica, Roma, Bizzarri, 1965, p. XLIX). L'autorevole storico, la cui opera, benché datata, risulta una delle più apprezzabili sull'argomento in questione, ha disposto lungo «un ordine di complessità logica crescente» i concetti di moneta di conto, moneta immaginaria e moneta ideale. Con la moneta di conto si cercava infatti di sanare «la confusione nei conteggi generata dalla coesistenza di più monete come mezzo di pagamento, riferite ad unità diverse», mentre la funzione principale della moneta immaginaria, «la cui unità sia una quantità costante di metallo», era quella di porre riparo alla «incertezza nei rapporti di debito e credito, del quantum di metallo dovuto, a causa delle alterazioni del titolo o del peso delle monete correnti, o del rapporto tra esse e la moneta di conto». Per mezzo della «moneta ideale», il cui concetto si collocava in cima a questo percorso logico, si cercava infine, di evitare «la perturbazione frequente e spesso violenta dei prezzi, e quindi di tutti i rapporti economici procedenti da scambi monetari, dovuta sia alle alterazioni delle monete sia alle variazioni di quantità e di valor di scambio dei metalli» (P. Jannaccone, Moneta e lavoro, Torino, UTET, 1946, pp. 31-32).]. I mercanti, di fronte alle continue degradazioni alle quali erano sottoposte le monete reali ed alli quali sarebbero state in futuro sottoposte le medesime, individuarono in un campione immutabile «indipendente dalle Leggi Civili, e dalle pubbliche calamità» per rendere i «contratti chiari, e i gradi del valore perpetui, e incorruttibili16 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 128.]».

L'altra classe di monete immaginarie, dette monete immaginarie correnti, utilizzate dagli «Uomini lontani dalle cautele mercantili», era stata invece sottoposta ad una continua riduzione di valore; la lira di Milano, ad esempio, nel Settecento aveva un valore circa trenta volte inferiore rispetto al momento della coniazione; ad una diminuzione ancora più sensibile erano state sottoposte le monete delle altre città italiane.

Conseguenza immediata17 [Il problema della relazione diretta tra il peggioramento della lira ed il rialzo delle monete nobili chiaramente avvertito dagli scrittori dell'epoca è stato giustamente rilevato da numerosi storici i quali ritengono che lo «slittamento» della moneta piccola sia la causa fondamentale ed unica del rincaro delle monete nobili e dei conseguenti squilibri monetari. H. van der Vee, ad esempio ha affermato che «in seguito alla svalutazione di quest'ultima [della moneta di conto], si verificò un aumento del valore delle monete d'oro, che non servivano da unità monetarie standard per la moneta ideale corrente, ma erano considerate un tipo particolare di merce con un certo valore di moneta di conto» (Sistemi monetari, creditizi e bancari, in Storia economica Cambridge, vol. V, trad. ital. Torino, Einaudi, 1975, p. 339). Questa interpretazione è stata recentemente sottoposta a revisione da G. Felloni (Finanze statali, emissioni monetarie ed alterazioni della moneta di conto in Italia nei secoli XVI-XVIII, in Istituto internazionale di storia economica Francesco Datini. Prato. La moneta nell'economia europea, secoli XII-XVIII. Atti della settimana di studio, 11-17 aprile 1975. A cura di Vera Barbagli Bagnoli. Firenze, Le Monnier, 1982, pp. 197-222), il quale, sulla base dei dati delle equivalenze in argento delle monete di conto e delle emissioni di monete nobili delle zecche di alcune tra le più importanti città italiane, ha individuato nella rarefazione interna del circolante nobile non compensata da un adeguato aumento nella sua velocità di circolazione la causa principale degli squilibri monetari. La mancanza delle monete grosse provocava la formazione di un aggio sul loro corso legale, con conseguenze negative per l'erario perché la maggioranza dei pagamenti che lo Stato effettuava erano in valute grosse mentre le riscossioni avvenivano in monete al corso legale. Ciò significava gravissime perdite per il prìncipe nei momenti in cui le quotazioni delle monete nobili erano in rialzo. Quando la situazione stava per precipitare al principe non rimaneva altro che ordinare la coniazione di monete divisionarie per lucrare sulla differenza tra l'intrinseco ed il prezzo ad esse assegnato.] di questa riduzione di valore era l'apprezzamento delle monete che erano state preservate dalla «generale corruttela», le quali «nel decorso di più secoli, senza essere accresciute di peso, hanno giornalmente meritato di essere valutate con un maggior numero di lire correnti18 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 128.]».

Era il caso dello zecchino veneto il cui valore era aumentato in modo consistente dal momento della prima coniazione; questo rincaro poteva essere spiegato con il fatto che «il grado del valore denotato sotto il nome di Lira essendosi nella intelligenza degli uomini col decorso dei tempi sempre diminuito, è bisognato un maggior numero di questi gradi per valutare una costante quantità di metallo; nell'istesso modo che per salire sopra una colonna di un'immobile altezza più che i gradi si adopereranno bassi maggiore deve essere il numero che bisogna applicarvene per difetto nei gradi19 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., pp. 128 - 129.]».

4. La "moneta ideale" nel Trattato delle Monete dell'Anonimo Cremonese

Il problema della distinzione tra unità monetaria di contrattazione ed unità monetaria di pagamento veniva affrontato in modo altrettanto chiaro anche nelle pagine iniziali del Trattato delle monete20 [Trattato delle Monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, pars II, Milano, in Regia Curia in Ædibus Palatinis [Società Palatina], 1750, ristampa anastatica Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1981, p. 191; il titolo completo dell'opera è: Trattato delle monete, Istorico, Economico, e Teologico; dilettevole, utile, e necessario ad ogni condizione di persone. E la vera storia delle lire lunghe di Cremona, la loro origine, le lor cagioni, e i loro cattivi effetti, tanto fisici, quanto morali. Esso è indicato in: Francesco Arisi, Cremona literata seu in Cremonenses doctrinis et literariis dignitatibus eminentiores choronologicæ adnotationes, tomo terzo, Cremona, Ricchini, 1741, p. 120. Non siamo purtroppo in grado di stabilire se il Trattato, certamente scritto prima del 1741, sia stato pubblicato precedentemente rispetto alla raccolta in cui compare.] del meno famoso Anonimo Cremonese [Ignazio Tadisi21 [L'indicazione del nome dell'autore si ricava da: Francesco Arisi, Cremona literata ..., cit., p. 120, G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all'Italia, Milano, Luigi di Giacomo Pirola, 1852, t. I p. 4, t. 2 p. 206; Luigi Ferrari, Onomasticon. Repertorio bibliografico degli scrittori italiani dal 1501 al 1850, Milano, Hoepli, 1947, p. 648; F. Venturi, Settecento Riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, p. 465. Ignazio Tadisi, cremonese, vestì l'abito somasco nel 1700. Insegnò rettorica e attese alla predicazione. Ebbe tra gli arcadi il nome di Trifilo Caddineo, e fu uno dei fondatori della colonia cremonese; proteologo nella cattedrale, esaminatore nella curia vescovile, consultore del santo offizio. Scrisse molti libri, per lo più in lingua volgare, che aspettano la luce. Di questo religioso erudito fa memoria l'Arisi nel t. 3 della Cremona letterata, 1741 (Breviario storico di religiosi illustri della congregazione somasca, composto dal p. Giacomo Cevasco e continuato dal P. C. M., sacerdoti della medesima congregazione, Genova, Tipografia della gioventù, 1898, p. 81). Per quanto riguarda la sua appartenenza all'Accademia degli Arcadi vedi: Giovanni Mario Crescimbeni, Il catalogo dei pastori arcadi per ordine di annoverazione [manoscritto], tomo II, anno 1720, n. 2116; Gli Arcadi dal 1690 al 1800. Onomasticon. A cura di Anna Maria Giorgetti Vichi, Roma, Arcadia Accademia letteraria italiana, 1977, P. 255.]] pubblicato nella parte seconda del De monetis Italiæ, una raccolta di saggi sull'argomento monetario pubblicata a partire dal 1750 dall'editore Filippo Argelati.

Lo scrittore lombardo, dopo aver dato cognizione dei pesi, nei quali le monete «sono determinate, e co' i quali esse si sogliono bilanciare», e della bontà dei metalli preziosi, definisce la «moneta ideale» quella, «che non ha corpo in se stessa, ma tutto il suo essere consiste nell'idea, cioè in un esemplare di qualche cosa, il quale si ferma nella fantasia, ovvero in un concepimento di mente, la quale si finge una certa specie di Moneta trascendentale, che si applica ad ogni sorta di Moneta reale. Tali sono le lire, i soldi, i danari22 [Trattato delle Monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., p. 197.]».

Anche senza la assoluta certezza egli affermava che «le lire, i soldi, i danari» erano monete realmente esistite «in un certo tempo», delle quali, era rimasta la sola idea per determinare il valore delle monete reali. Esisteva, tuttavia, un altro tipo di moneta ideale: quella della cui esistenza si aveva assoluta certezza e la cui valutazione era stata sottoposta ad una alterazione continua.

Era il caso del Fiorino, che da una lira - valore che aveva al momento della coniazione - dopo poco tempo arrivò a valere 32 soldi, valutazione che si intendeva quando si contrattava "a fiorini", anche se il valore di questa moneta continuò ad aumentare. Allo stesso modo quando si contrattava "a scudi" si intendeva sempre sei lire per ogni scudo, nonostante il valore dello scudo reale fosse di gran lunga aumentato23 [Poteva accadere cioè che «il fiorino di cui la gente parlava e in cui la gente contava non fosse il grazioso pezzo d'oro in circolazione e fosse invece un'altra moneta che non esisteva, che nessuno poteva né vedere né toccare, un'altra moneta fantasma [una moneta che come la lira durante la maggior parte della sua esistenza non si concretò in una effettiva, visibile e tangibile moneta]». Risultava pertanto che «il valore attribuito alle due monete, quella effettiva e quella fantasma, non era lo stesso», con il conseguente dubbio di coloro che studiano le antiche carte e i documenti antichi i quali, trovandosi di fronte ad espressioni monetarie si pongono la domanda se la espressione monetaria indichi la moneta effettiva o la moneta fantasma. La tendenza al rialzo delle monete nobili come il fiorino generò l'abitudine «ad usare il termine fiorino per indicare 384 denari (cioè 32 soldi), esattamente come, per secoli, aveva usato la parola lira per indicare 240 denari. In realtà, dopo l'inizio del secolo decimoquinto, non ci fu più nello Stato di Milano una moneta effettiva del valore di 384 denari. Il fiorino del valore di 384 denari era un fantasma. Il fiorino effettivo aveva valori più alti, e progressivamente più alti. Intorno al 1445, per esempio, era a circa 768 denari; a quel tempo, perciò, 1 fiorino effettivo valeva 2 fiorini fantasma. E la differenza divenne maggiore in progresso di tempo». Infine «da un punto di vista economico è importante sottolineare che esistevano fianco a fianco sistemi di conto fondati su monete di base stabili (come il ducato o il fiorino) e sistemi di conto fondati su monete di base che s'andavano progressivamente deteriorando»; la prevalenza di un sistema rispetto all'altro poteva essere favorevole ai creditori e ai rentiers, come nel caso dei sistemi di conto fondati su monete di base stabili, oppure ai debitori ed agli imprenditori, come nel caso dei sistemi di conto fondati su monete sottoposte a continuo deterioramento. (C. M. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Neri Pozza Editore, 1957, pp. 51, 52, 61, 64).].

Le monete ideali, proseguiva l'Anonimo Cremonese, altro non erano che «segni estrinseci, che fanno venire in cognizione dell'intrinseco», allo stesso modo «che Pietro non è l'individuo umano, ma bensì è un nome, che fa venire in cognizione del tale Individuo, cioè dell'essenza umana24 [Trattato delle Monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., p. 198.]». Tre danari, ad esempio, erano un nome di un pezzetto di rame che poteva anche essere chiamato quattrino, come sette lire erano il nome del filippo e dieci della genovina.

Questa analisi veniva completata con alcune citazioni dell'autorevole giurista Gasparo Antonio Tesauro, autore del Tractatus de augmento monetarum25 [Tractatus de augmento monetarum, in De monetarum augmento variatione et diminutione tractatus varii, Augustæ Taurinorum, 1609 (citazione bibliografica tratta da O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, vol. 2, tomo secondo, Sassari, Gallizzi, 1992, p. 1555).]; sulla sua scorta, afferma infatti che la moneta immaginaria «non è un'ente reale, ma un'ente mentale come concepita, e un ente verbale, o vocale come pronunziata. Le lire, i soldi, i danari sono monete secundum dici, ma non secundum esse, sono entia linguæ, ma non già entia rei26 [Trattato delle Monete di Anonimo Cremonese, in De monetis Italiæ, cit., p. 198.]»

La voce lira, tuttavia, non rappresentava ovunque la medesima quantità di metallo così come uno staio non rappresentava dappertutto la medesima quantità di frumento, ma, al contrario di quest'ultima unità di misura, la lira molto difficilmente rimaneva costante nel tempo a causa della mutazione continua del valore delle monete reali, anche se era stabile l'idea della lira divisa in 20 soldi, e del soldo in 12 denari.

In queste pagine il motivo della cessata coniazione delle monete piccole con un valore pari al danaro, viene ricondotto sia al continuo aumento di valore delle monete grosse (nobili), sia alla importazione massiccia di argento dall'America che contribuì in modo determinante allo svilimento del metallo stesso.

5. La relatività dei concetti di "moneta di conto", "moneta immaginaria" e "moneta ideale"

La spiegazione della distinzione tra unità monetaria di contrattazione ed unità monetaria di pagamento potrebbe essere ulteriormente ampliata con la testimonianza di scrittori che nello stesso periodo si occuparono del problema monetario. Tutto ciò per mostrare come, pur avendo una visione sufficientemente chiara del problema, essi facessero uso di termini completamente diversi. Quella che da Pompeo Neri veniva chiamata «moneta immaginaria», era dall'Anonimo Cremonese definita «moneta ideale»; mentre l'analisi di Ferdinando Galiani, il quale «si pone il problema della stabilità del valore della moneta [moneta ideale] rispetto a tutti gli altri beni», mira, come vedremo, a dimostrare la impossibilità di pervenire ad un concetto di «moneta immaginaria» con un valore stabile.

Giovannantonio Fabbrini, solo per citare un altro scrittore di cose monetarie del XVIII secolo, assimila la «moneta immaginaria» a quella di conto e la definisce «quella che serve a dare idea del rapporto di valore fra le specie, o fra le Monete, e le Monete, o fra le Monete, e le specie, independentemente da ogni altra alterazione, che uno o più Governi facciano, o far possano nelle Monete reali27 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole, e qualità naturali, e civili della moneta e de' principj istorici e naturali de' contratti. Dissertazioni, Roma, Niccolò e Marco Pagliarini, 1750, p. 93.]».

Egli, insistendo molto sulle caratteristiche di invariabilità di questa moneta, finisce per identificarla con l'«idea di un valore fisso», concetto che si avvicina molto alla «moneta immaginaria di banco» delineata nelle Osservazioni di Pompeo Neri.

Questa breve rassegna, anche se certamente incompleta, mostra la diversità delle spiegazioni fornite dagli scrittori dell'epoca intorno ai concetti e/o i termini di moneta di conto, moneta immaginaria e moneta ideale. Essi, al contrario di quanto hanno fatto alcuni storici del pensiero monetario che non hanno sufficientemente sottolineato tali differenze, insieme alle spiegazioni di carattere generale forniscono sufficienti precisazioni che permettono di collocare in un contesto preciso i fenomeni descritti28 [P. Jannaccone, ad esempio, ha fatto giustamente notare come Montanari e Broggia intendessero in modo diverso il concetto di moneta immaginaria; per il primo «la moneta immaginaria è null'altro che la moneta di conto, sia che non esista realmente, sia che esita in concreto ma corra con un valore diverso dall'intrinseco», mentre per Broggia essa è quel piede fisso che si caratterizza per l'immutabile prezzo e si concretizza in «una data quantità di rame monetato, alla quale vengono ragguagliate le monete effettive d'oro e d'argento con un rapporto che varia a seconda del contenuto metallico di queste monete e del valore del metallo di cui sono formate» (Moneta e lavoro, cit., p. 32).].

Pertanto, sostenere, come, ad esempio, ha fatto Luigi Einaudi, al quale peraltro va il merito di avere per primo esaminato in modo sistematico questi problemi, che le definizioni «aeree o formali» della moneta immaginaria erano dovute al fatto che gli stessi scrittori antichi non erano «in verità persuasi della fondatezza della distinzione29 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 238.]» tra moneta immaginaria e moneta reale, non è, secondo il nostro avviso, del tutto corretto perché, almeno negli scrittori esaminati, la distinzione tra moneta utilizzata nei pagamenti e moneta destinata a campione per le contrattazioni era delineata in modo abbastanza chiaro.

6. Il profilo delle regole di funzionamento dei sistemi monetari nelle Osservazioni di Pompeo Neri

I meccanismi di funzionamento dei sistemi monetari anteriori al XIX secolo ci sembrano descritti in modo esemplare nelle Osservazioni di Pompeo Neri30 [Riteniamo opportuno precisare che il continuo riferimento al trattato dello scrittore toscano non è dovuto al primato delle sue idee, rispetto a quelle dei suoi contemporanei, ma alla chiarezza espositiva ed alla capacità di sintesi che lo contraddistingue.]. Il giurista toscano sosteneva innanzitutto la necessità di osservare due regole fondamentali al momento di assegnare il prezzo alle monete: la prima «che si osservi la proporzione attualmente vegliante tra l'oro, e l'Argento, e tra l'Argento, e il Rame», e la seconda che «ciascheduna Moneta sia prezzata in proporzione della quantità di metallo, che in se contiene31 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 129.]».

Le fluttuazioni del corso commerciale dei metalli preziosi compromettevano infatti la stabilità del sistema monetario, era necessario quindi ristabilire l'armonia, fare in modo cioè che «il rapporto esistente sul mercato fra i due metalli in pasta (lingotti o verghe) fosse uguale al rapporto legalmente fissato tra le due unità monetarie coniate; condizione comunemente espressa dicendo che il rapporto commerciale sia uguale al rapporto legale32 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 240. Le condizioni che rendevano possibile il regolare funzionamento del sistema monetario furono enunciate per la prima volta da Nicolò Copernico che, incaricato dal re di Polonia di trovare una soluzione ai problemi causati dal grave disordine monetario, espose le proprie idee in una breve memoria scritta nel 1526 intitolata Monete Cudende Ratio. Lo scritto di Copernico è particolarmente apprezzabile perché egli affronta l'argomento monetario senza alcun riferimento a vincoli di carattere teologico e morale come avevano fatto fino a quel momento molti tra coloro, compreso Oresme, che avevano affrontato quel tipo di problemi. Egli, oltre ad analizzare le conseguenze economiche dello svilimento della moneta (aumento dei prezzi, ridistribuzione delle ricchezze dei singoli, penalizzazione del commercio internazionale) formulò per primo quella che erroneamente viene chiamata «Legge di Gresham». Osservò infatti che, a fronte della contemporanea circolazione di due monete, aventi la stessa denominazione, l'una buona e l'altra cattiva (con un contenuto metallico compromesso), la cattiva scaccia la buona. La legge veniva enunciata in relazione al progetto di riforma monetaria che prevedeva l'introduzione di una moneta nuova con un contenuto metallico maggiore rispetto all'antica. Egli afferma infatti che «se non conviene affatto introdurre una nuova e buona moneta conservando la cattiva moneta antica, più grave errore è introdurre accanto ad una antica moneta buona una nuova moneta cattiva, perché non soltanto questa deprezza l'antica, ma, per così dire, la caccia» (O. Nuccio, Legge di Gresham o legge di Copernico?, pubblicato in: «Rivista Bancaria», Gennaio-Febbraio 1974, ed ora in Investigazioni nella storia del pensiero economico, Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri, 1980, pp. 13-32).]».

Appariva chiaro come la regola meno seguita fosse la seconda. Diversi erano i processi di alterazione ai quali venivano sottoposte le monete, che potevano tuttavia essere ricondotti a tre metodi: la falsificazione operata dai privati, la riduzione del metallo in esse contenuto a parità di prezzo operata dalla zecca, ed infine l'«augumentazione» del prezzo a parità di metallo per mezzo di una legge del principe.

L'attività più diffusa tra i privati era quella della tosatura che consisteva nel sottrarre una parte di metallo dal bordo delle monete; mentre l'altro metodo, quello di imitare il conio delle monete utilizzando metallo vile, era molto meno diffuso perché richiedeva «una scienza molto più recondita».

La circolazione di un grande numero di monete che contenevano una quantità di metallo inferiore a quella dichiarata, provocava la diminuzione della lira in misura proporzionale alla diminuita quantità di metallo, essendo questa «una Quota delle Monete reali» nel caso in cui - ed era la situazione più frequente - la lira non era vincolata ad un campione incorruttibile. La degradazione della lira era poi la causa dell'aumento del prezzo delle merci, compresi i metalli preziosi e quelle monete che erano state preservate dalla generale corruttela.

Il principe, che controllava l'attività della zecca, era, tuttavia, il responsabile maggiore del disordine monetario esistente; la riduzione legale avveniva in due modi: coniando moneta diminuita di peso oppure utilizzando metallo di bontà inferiore, ferma restando, in entrambe i casi, la non diminuzione di prezzo. Questo metodo che comportava la rifusione di tutte le monete cadde presto in disuso e ad esso venne preferita la «augumentazione legale del prezzo».

L'«augumentazione» del prezzo delle monete veniva realizzata utilizzando lo «stratagemma» della moneta immaginaria che permetteva di evitare la messa fuori circolo e la riconiazione delle monete reali. In pratica si modificava il rapporto tra monete reali metalliche e moneta immaginaria, decretando, ad esempio, che il valore del Fiorino dovesse aumentare da 24 a 30 lire; in questo modo non si faceva altro che «diminuire il grado corrente del valore, e trasportare per esempio il nome di Lira da una quota più grande a una quota più piccola dell'istessa moneta33 [Pompeo Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale ..., in De monetis Italiæ ..., cit., p. 132.]».

Accadeva così che «il principe, il quale aveva accattato a mutuo 24 milioni di lire quando il Fiorino d'oro correva a 24 lire ed egli aveva ricevuto dai prestatori un milione di fiorini d'oro, oggi rimborsava i 24 milioni di lire dando fiorini valutati al nuovo corso di 30 lire, al che bastavano 800 mila fiorini. Il lucro suo di debitore era di 200 mila fiorini34 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 263.]».

Tuttavia, in due casi ben determinati poteva accadere che, attraverso l'«augumentazione» del prezzo delle monete, non si diminuisse la lira corrente. Nel primo caso, quando «la proporzione tra il tutto e le sue parti non fosse osservata nel corso delle monete», sarebbe stato cioè come correggere un errore di calcolo restituendo alle monete la proporzione necessaria.

Il secondo caso in cui l'«augumentazione non fa male, è quando la proporzione tra i metalli non è bene osservata», quando cioè il rapporto commerciale fra i metalli, soggetto a variazioni abbastanza frequenti, non coincideva con il rapporto legale riscontrabile nelle monete. Ad esempio, di fronte al deprezzamento pari al 10% di un metallo di cui una moneta era composta, nei confronti dell'altro metallo di cui erano composte le altre monete, si stabiliva una diminuzione 10% di meno in lire.

In questo modo si poteva realizzare un aggiustamento senza ricorrere alla rifusione delle monete, era sufficiente, infatti, che il sovrano, attraverso le legge, stabilisse il nuovo valore delle monete in lire immaginarie, riallineando così il rapporto ufficiale dei metalli a quello commerciale. Per questo motivo Luigi Einaudi ha affermato che «la moneta immaginaria non è una moneta qualsiasi. Essa è un mero strumento od espediente tecnico usato per raggiungere dati scopi35 [L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria ..., cit., p. 238.]».

Lo stesso Einaudi si affretta a segnalare l'esistenza di limiti notevoli che derivavano dall'utilizzo dello strumento moneta immaginaria. Accadeva infatti che alle variazioni intervenute nel corso commerciale dei diversi metalli non sempre seguiva immediatamente un decreto del principe che assegnasse alle monete un nuovo prezzo in moneta immaginaria, si verificava cioè una «lentezza» nel funzionamento dello strumento moneta immaginaria che non evitava la presenza di alcuni inconvenienti che corrispondono agli effetti della «cosiddetta» "Legge di Gresham".

La soluzione che permetteva di eliminare questi inconvenienti che impedivano il regolare funzionamento del sistema monetario, era stata trovata - afferma l'autorevole storico - da Ferdinando Galiani, il quale aveva suggerito per evitare di assegnare a tutte le monete, al posto del corso forzoso di grida, un semplice prezzo di voce cioè un «prezzo da valere in assenza di convenzione contraria». La «clausola galianea36 [Ad una attenta lettura delle Osservazioni è possibile rilevare come anche Pompeo Neri vide che il vizio della moneta di conto era nella lentezza inevitabile della sua applicazione, cioè nella lentezza, ad adeguarsi alle variazioni dei rapporti di mercato fra l'oro e l'argento. Scoperta di Galiani, «come scrive autorevolmente l'Einaudi, ma scoperta nello stesso tempo del Neri» (O. Nuccio, Pompeo Neri, Appendice al vol VII ..., cit., p. LVIII).]» del prezzo di voce avrebbe potuto così consentire l'eliminazione dei danni della sproporzione tra metallo e metallo e il regolare funzionamento del sistema bimetallico.

 
 
 
 
 

 
 

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