CAPITOLO V

Il contributo di due scrittori veneziani al dibattito monetario: Girolamo Costantini e Piergiovanni Cappello

1. Premessa

Anche a Venezia, come in tutte le altre città d'Italia, si sviluppò una ricca letteratura intorno alla dibattuta questione delle monete. Per ordine di importanza va annoverata l'«eruditissima opera» pubblicata dall'istriano Gianrinaldo Carli nel 1751 Dell'origine e del commercio della moneta e dell'istituzione delle zecche d'Italia sino al secolo decimosettimo. Lo scritto, ricordato nel capitolo terzo, appartiene al periodo «veneziano» dell'attività di Carli. Tuttavia egli non fu il solo che in quel periodo a Venezia si interessò del problema monetario; sempre in quell'anno1 [A. Lizier ci segnala anche la Dissertazione intorno alle monete scritta nel 1751 da Nicolò Donato; quest'opera, «rimasta inedita forse anche perché l'autore, come appare dal manoscritto, non aveva dato a tutto il lavoro la sua redazione definitiva; è un trattato completo ed organico sulla moneta». (Dottrine e problemi economici del secolo XVIII nella vita e negli scrittori veneti del tempo, in «Ateneo veneto», a. CXIII, vol 110, Venezia, 1932, p. 324)] fu pubblicata anonima un'altra opera intitolata Delle Monete in senso pratico e morale, del veneziano Girolamo Costantini, mentre l'anno successivo fu dato alle stampe il Nuovo trattato del modo di regolare la moneta, di Piergiovanni Cappello.

La storiografia economica ha dedicato uno spazio marginale alle opere di Girolamo Costantini e di Piergiovanni Cappello (in questo secondo caso lo spazio è quasi inesistente). Le loro opere vengono neppure ricordate in importanti lavori dedicati agli scrittori veneti del Settecento, come il trattato scritto da Giannantonio Moschini2 [G. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino ai nostri giorni, 4 voll., Venezia, Palese, 1806-1808.] agli inizi del secolo scorso o la voluminosa raccolta di saggi di Gianfranco Torcellan3 [G. Torcellan, Settecento veneto e altri scritti storici, Torino, Giappichelli, 1969.]. Inoltre, Romano Molesti, in un breve scritto pubblicato di recente ed intitolato Moneta e credito negli economisti veneti del '700, ha ritenuto opportuno ricordare i soli contributi di Gianbattista Corniani e Gianrinaldo Carli, dedicando allo scrittore bresciano uno spazio tale da farlo apparire lo scrittore più rappresentativo del periodo e dell'argomento in questione.

Questi scritti, che rappresentano in parte il contributo portato alla soluzione dei gravi problemi economici in cui si dibatteva l'antica repubblica, sono il risultato di analisi, indagini e studi condotti da uomini che non appartengono al quel Settecento veneziano «composto solo, come si ripete con tanta frequenza, di frivola letteratura, di arte leziosa, di maldicenza, di ironia e di canzonatura. Il Settecento veneziano non aveva soltanto il volto goldoniano o quello casanoviano di un mondo corrotto, decadente e zeppo di scandali. La vita veneziana del Settecento, nonostante i grandi vizi, da cui era corrosa, possedeva ricca virtù di spirito e di azione, e pensosa poteva sapere e meditare sopra i maggiori problemi interni e internazionali, e formulare serenamente prima di spegnersi felici soluzioni. Molta parte di questo assiduo e non trascurabile lavoro, forse la maggiore, è ancora inedita, ignorata, dimenticata: eppure in essa si raccolgono tesori di sapienza, riflessi di modernità, accenti di rara intuizione, che fanno perdonare e riscattano le colpe di incosciente mondanità, alle quali anche da uomini insigni fu spesso accordato soverchio credito. La diplomazia, la politica, la scienza anche nel Settecento, nel così detto secolo della decadenza, non smentirono le doti, per le quali nei secoli precedenti Venezia era stata stimata ed onorata come maestra di dottrine e di opere4 [R. Cessi, Storia della repubblica di Venezia, Milano, Principato, 1946, vol. 2, p. 215.]».

2. La personalità di Girolamo Costantini

Girolamo Costantini, ragionato presso i Deputati e aggiunti alla provvisione del denaro pubblico, dal 1750 al 1754 ha pubblicato quattro monografie di carattere monetario nelle quali, «se non da piena prova di coltura ed erudizione vaste, dimostra non di meno grande acutezza di pensiero e conoscenza sicura dei fenomeni economici e delle loro leggi naturali5 [F. Besta, Introduzione al Vol. III dei Bilanci Generali della Repubblica di Venezia col titolo Appunti sulla compilazione dei bilanci generali di fatto, Venezia, Visentini, 1903, p. LXXXVI.]». La sua figura è stata spesso confusa con quella di un suo contemporaneo Giuseppe Antonio Costantini, noto avvocato e scrittore; l'equivoco è nato subito dopo la pubblicazione dell'opera più importante di Girolamo Costantini, quando Antonio Zaccaria, in una recensione sul suo autorevole giornale affermò: «Ecco altro libro in materia di moneta. L'autore è anonimo, ma per quanto vienci supposto, egli è il Sig. Avvocato Costantini Viniziano. Se vuolsi il titolo, questo è Delle monete in senso pratico, e morale Ragionamento diviso in sette capitoli. In Venezia 1751. pagg. 115.6 [Storia Letteraria D'Italia, sotto la protezione del Serenissimo Francesco III, Duca Di Modena, Ec. Ec., Volume V, dal settembre 1751, al Marzo 1752, In Venezia, 1752, nella Stamperia Poletti, p. 199.]».

A chiarire l'equivoco ha contribuito in maniera decisiva lo stesso Girolamo Costantini che nella introduzione alla versione italiana delle opere di Melon, Dutot e Saint-Pierre, ha dichiarato: «Ora tra gl'Italiani Scrittori che trattarono ex professo della importante materia delle MONETE, uno ci fu il quale dopo aver pubblicati varj pratici Opuscoli, come quegli che ha naturale ingerenza in un sì fatto gravissimo affare, pensò di far cosa che fosse ad un tempo e grata ed utile al Pubblico, col procurar la Versione e la Edizione delle Opere che contengonsi nel presente Volume7 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia agitata tra due Celebri Scrittori Oltramontani, i Signori Melon e Dutot. Si è aggiunto in fine un Opuscolo sulla stessa materia del signor abate de Saint- Pierre, versione dall'idioma franzese, in Venezia, appresso Antonio Zatta, 1754, Introduzione, p. vi, nota a piè di pagina.]». Ed in una nota, richiamata alla voce Opuscoli sopra riferiti, affermò: «Gli Opuscoli sono i seguenti. I. Esame delle cose introdotte senza pruova alcuna dalli Negozianti ecc., uscito alla luce in Venezia dalla Stamperia Ducale nel 1750. in 4. II. Delle Monete in senso pratico e morale, Ragionamento. In Venezia appresso Simone Occhi nel 1751. in 4. III. Caso di Monete imprestate, Dialogo. In Venezia appresso Giuseppe Bortoli nel 1753. in 4. Della seconda di queste Opere dà un bell'estratto l'erudito Autore della Storia Letteraia d'Italia nel Volume V. alla pag. 199. Ma esso non è altrimenti il Signor Avvocato Costantini Viniziano, ma bensì il Signor Girolamo Costantini, Ministro dell'Eccellentissimo Magistrato dei deputati alla Provvision del Danaro8 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. vi, nota a piè di pagina.]».

Tuttavia, anche in alcuni lavori9 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 509; Massimo Petrocchi, Il tramonto della repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia, La Deputazione Editrice, 1950, p. 95.], pubblicati in tempi a noi molto più vicini, la figura di Girolamo Costantini, ragionato, è stata confusa con quella di Giuseppe Antonio Costantini10 [Su Giuseppe Antonio Costantini vedi: Dizionario Biografico degli Italiani, sub voce (p. 299), vol. 30, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.], nonostante già nel secolo scorso l'autorevole Dizionario delle opere anonime e pseudonime di Gaetano Melzi11 [G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime ..., cit., pp. 181, 373, tomo II, p. 206.] abbia attribuito le opere in questione a Girolamo Costantini.

Le notizie sulla vita e sul servizio prestato da Costantini nella amministrazione finanziaria della Serenissima sono tratte soprattutto dagli scritti di Fabio Besta, lo storico il quale, anche se da una prospettiva diversa da quella della storia monetaria, ha dedicato lo spazio maggiore alla ricostruzione della figura di questo veneziano del XVIII secolo.

Girolamo Costantini (1690-1774) iniziò il suo servizio di amministratore della Repubblica di Venezia, a cui nella lunga vita dedicò «tutta la sua intelligenza e la sua energia non comuni12 [F. Besta, Introduzione ..., cit., p. LXXXVI.]», nel 1724, anno in cui per la prima volta ricoprì l'ufficio di ragionato (ragioniere), presso i Riformatori dello studio di Padova, e presso i Deputati e aggiunti alla provvision del denaro. Queste due cariche furono momentaneamente abbandonate dal 1728 al 1735, quando seguì come ministro il nobiluomo Francesco Donà eletto Bailo a Costantinopoli.

Il suo nome è legato soprattutto al servizio reso come ragionato presso i Deputati e aggiunti alla provvision del denaro pubblico13 [La magistratura sulla Provvisione del denaro, istituita allo scopo di indicare i modi più opportuni per raccogliere denari per far fronte alle necessità della guerra di Candia, si trova a partire dal 1646. La componevano allora 5 membri. A coadiuvarli, dal 1652 al 1657, vennero nominati due aggiunti. I cinque sulla provvisione del denaro durarono nelle loro funzioni fino al 1661. Nel 1658, vennero nominati accanto ad essi tre deputati alla provvision del denaro, i quali poco dopo li sostituirono completamente. Nel 1664 per aiutarli nella situazione di grave difficoltà vennero eletti quattro aggiunti, nel 1678 un altro e nel 1684 ancora due, che insieme ai deputati continuarono ad essere eletti fino alla caduta della Repubblica. Loro incarico principale era quello di dar parere su tutti i rami della pubblica economia. Spessissimo si univano in consulta col Savio Cassier in carica e con quello uscito di carica venendo così a costituire il supremo organo finanziario della Repubblica. Formava il bilancio dello Stato e teneva i registri della popolazione delle terre soggette per meglio proporzionare carichi e pesi. (A. Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, tomo I, Roma, Biblioteca d'Arte Editrice, 1937, p. 121).], per i quali «compilò ben trentasette bilanci generali consecutivi per gli anni dal 1736 al 1772 compresi, e ne incominciò un altro, il trentottesimo relativo all'anno 1773, ma non lo poté condurre a termine, perché mentre vi attendeva lo colse la morte il 22 settembre 177414 [F. Besta, Introduzione ..., cit., p. LXXXVI.]».

La carica ricoperta da Costantini non doveva essere di poco conto poiché il Senato stesso si augurava che fossero «introdotte in un ministero di tanta importanza persona di buona nascita, di abilità e di buoni costumi, requisiti tanto essenziali in un ragionato; con che si rimetta in miglior sistema un corpo, che per l'essenzialità delle proprie incombenze, esige i più attenti pubblici riflessi per questo effetto15 [Senato, decreto del 22 agosto 1739; citazione tratta da: A. Stella, Il servizio di cassa nell'antica repubblica veneta. Venezia, Visentini, 1889, p. 27.]».

Facendo proprie le preoccupazioni del Senato, che aveva deliberato affinché «si studiasse il modo di ridurre se mai fosse possibile in una sola cassa le molte attinenti alla pubblica economia16 [I decreti con cui il Senato invita i Deputati ed Aggiunti alla prov. del den. a studiar la questione, sono del 22 febbraio 1724 e 2 aprile 1725, e sono parzialmente riprodotti in F. Besta, La Ragioneria. Prolusione letta nella solenne apertura degli studi per l'anno scolastico 1880-81 alla R. scuola superiore di commercio in Venezia. Venezia, Tipografia dell'Istituto Coletti, 1880, p. 56.]», il ragionato Costantini, insieme ai colleghi Della Vedova e Glissenti, propose di accentrare il servizio di tesoreria, obbligando «il maneggio della pubblica economia a passare per Banco17 [Scrittura dei Deputati e Aggiunti alla provvisione del denaro del 26 marzo 1738, riprodotta parzialmente da F. Besta, La Ragioneria, cit., p. 56.]». Questa proposta mirava innanzitutto a «rinsaldare la scarsa fiducia di mercanti e capitalisti verso l'istituto, aumentandone i depositi e generalizzando quanto più possibile l'uso della partita di Banco18 [A. Ventura, Introduzione al Vol IV dei Bilanci Generali della Repubblica di Venezia, dal 1756 al 1783, Padova, Tipografia antoniana, 1972, p. LXI.]», ma era dettata anche dall'esigenza di effettuare «un controllo diretto e tempestivo del flusso delle entrate e delle uscite dello stato, per l'avvio di un processo di accentramento, ch'era esigenza fisiologica dello stato moderno19 [A. Ventura, Introduzione al Vol IV dei Bilanci Generali della Repubblica di Venezia, dal 1756 al 1783, Padova, Tipografia antoniana, 1972, p. LXI.]».

La proposta di Costantini, se accettata, avrebbe affidato il servizio del Tesoro al banco pubblico, realizzando così a Venezia quello che si verificò per la prima volta soltanto nel 1823 a Napoli e nel 1834 in Inghilterra; la mancata attuazione fu dovuta al fatto che questa «non era consentanea all'indole del governo veneziano, che aborriva ogni troppo grande accumulazione d'autorità in un magistrato20 [F. Besta, La Ragioneria, cit., p. 57.]». Tuttavia va sottolineato come a Costantini, «in quel tempo forse il principale esperto di amministrazione finanziaria», non sfuggivano i numerosi vantaggi che questa proposta avrebbe potuto arrecare in un generale processo di razionalizzazione dell'apparato burocratico.

L'opera più esemplare realizzata da Costantini nella amministrazione finanziaria della Serenissima è senza dubbio la pubblicazione, «da tanto tempo desiderata e deliberata dal Senato Veneto, dei bilanci e delle spese effettivamente compiute21 [L. Einaudi, L'economia pubblica veneziana dal 1736 al 1755, pubblicata la prima volta in: «La Riforma Sociale» dell'Anno 1901, ed in Studi di economia e finanza, Torino, Società tipografica editrice nazionale, 1907, p. 121.]»; questa innovazione, che è stata definita da Luigi Einaudi «riforma contabile Costantiniana», fu realizzata nel 1737 con il proposito principale di «dare ordine alla arruffatissima materia dei bilanci generali22 [L. Einaudi, L'economia pubblica veneziana dal 1736 al 1755, pubblicata la prima volta in: «La Riforma Sociale» dell'Anno 1901, ed in Studi di economia e finanza, Torino, Società tipografica editrice nazionale, 1907, p. 121.]», attraverso un riepilogo in gruppi delle singole entrate ed uscite, che fino a quel momento formavano un sistema estremamente complicato di ben 213 casse diverse, ciascuna con una sua contabilità separata dalle altre, alle quali era legata da un rapporto continuo di versamenti ed incassi.

Per la prima volta, ed anche questo contribuisce a conferire un carattere innovativo all'ambizioso progetto, la pubblicazione dei bilanci fu effettuata su moduli a stampa. Moduli simili furono utilizzati anche per il censimento della popolazione presente sul territorio della Repubblica, la cui realizzazione, affidata ai Deputati ed Aggiunti alla provvision del denaro nel 1764, fu seguita in prima persona dal vecchio ragionato Costantini, «il quale alla direzione dell'opera, in punto d'ordine, è stato dall'Eccellentissimo Senato incaricato23 [Terminazione dei Deputati ed Aggiunti sopra la Provvision del Danaro, 19 Dicembre 1765, Archivio di Stato, Registro 188, riprodotta da A. Contento, Il Censimento della popolazione sotto la Repubblica Veneta in: «Nuovo Archivio Veneto» Tomo XX, 1900, p. 213; altri documenti riprodotti nella stessa opera provano che l'anagrafe dal 1765 al 1760 è opera quasi esclusiva di Costantini.]».

I Deputati e aggiunti alla provvision del denaro e lo stesso Senato tributarono a Costantini numerosi encomî per «l'onestà, la fede e l'energia nel pubblico servizio, l'abilità e l'intelligenza non comuni24 [F. Besta, Introduzione ..., cit., p. LXXXVI.]». I primi, ad esempio, in riferimento al bilancio del 1737, confessarono che «il braccio» da essi adoperato in quel «grande lavoro è stato il fedel Gerolamo Costantini, che instrutto con la lunga esperienza degl'affari della pubblica economia, superate anco le fattali indisposizioni, non poteva meglio rispondere alle nostre idee con indefesse fatiche. Vostre eccellenze ben informate del zelo, fervore ed abilità sua vorranno certamente degnarsi di animarlo nel progressivo lavoro con il generosissimo loro aggratimento25 [Deputati ed Aggiunti, scrittura del 28 marzo 1739, riprodotta in R. Commissione Per La Pubblicazione Dei Documenti Finanziari Della Repubblica Di Venezia, Serie 2a, Bilanci Generali della Repubblica di Venezia, Vol. II, Bilanci dal 1736 al 1755 (Scritture e Decreti), Venezia, Visentini, 1903, p. 52.]»; gli stessi Deputati ed Aggiunti proposero al Senato di assegnare a Costantini «per ogni bilancio la summa di ducati settecento effettivi26 [Deputati ed Aggiunti, scrittura del 21 luglio 1741, riprodotta in Bilanci Generali ..., cit., p. 240.]», perché «in fatto corrisponde egli con pieno zelo, esattezza ed abilità nella perfezione di una tant'opera, che va a conciliarvi giustamente la pubblica grazia27 [Deputati ed Aggiunti, scrittura del 21 luglio 1741, riprodotta in Bilanci Generali ..., cit., p. 240.]».

Girolamo Costantini, oltre a servire fedelmente nella amministrazione finanziaria della Repubblica di Venezia, scrisse diverse monografie sui problemi monetari, che a Venezia in quel periodo erano sentiti come in tutte le altre città della Penisola.

3. La disputa con i «Negozianti Allemani»

Nel 1750 pubblicò anonimamente il suo primo scritto28 [ESAME Delle cose introdotte senza pruova alcuna, dalli Negozianti Allemani, e da alcuni Mercanti e Botteghieri di questa Città col mezzo di tal qual scrittura d'allegazione da essi prodotta 28 settembre 1750 sul punto delli Pagamenti in Partita di Banco delle merci in prima mano sopra la summa di Ducati trecento Moneta di Piazza, e di tutte le cambiali sopra di detta summa. (Nell'esemplare da noi consultato, inserito in una versione più ampia della monografia Delle Monete in senso pratico e morale, non viene indicata né la data, né il luogo, né lo stampatore che tuttavia si ricavano da: Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, nota a p. vi).], una «memoria» il cui fine era esclusivamente quello di confutare le argomentazioni, presentate «dalli Negozianti Allemani e da alcuni Mercanti e Botteghieri» di Venezia, contrarie al provvedimento che prescriveva l'obbligo di effettuare in «Partita di Banco29 [Il Banco in questione è il Banco del Giro che, istituito nel 1619 allo scopo di gestire parte del debito pubblico della Repubblica, incontrò subito il favore dei mercanti che in misura sempre maggiore vi affidarono i loro depositi. Eseguì normalmente anche le operazioni di giro, costringendo, a causa della concorrenza da esso esercitata nei confronti del Banco della Piazza di Rialto quest'ultimo istituto, un tempo famoso, alla chiusura. L'oggetto del giro era la partita di Banco, cioè l'ammontare del credito di cui una persona poteva disporre in Banco. La partita divenne «in conseguenza quasi una moneta immaginaria, la quale avrebbe potuto aver valore o in quanto fosse possibile quando che sia il suo cambio colla moneta reale, o in quanto fosse accettata in sostituzione della reale. Ma la partita non poteva esser cambiata col contante ma soltanto girata in Banco, il valor suo quindi doveva dipendere dalla sicurezza dell'uso, atteso che non poteva esser ricusata nelle contrattazioni. Si capisce come questa sicurezza dovesse scemare a proporzione che il moltiplicarsi della partita ne accrescesse la quantità superiore al bisogno delle contrattazioni» (A. Soresina, Il Banco Giro di Venezia, Venezia, Visentini, 1889, p. 16). La moneta di conto del Banco del Giro era la lira di banco che equivaleva a dieci ducati di banco; la lira di banco si divideva in venti soldi, il soldo in 12 grossi.]» i pagamenti delle «Merci in prima mano sopra la summa di Ducati trecento Moneta di Piazza e di tutte le Cambiali sopra di detta summa»; il provvedimento faceva parte delle misure prese dal governo veneziano per ristabilire una situazione di normalità, ma soprattutto per «rimuovere quei privilegi e quegli abusi che la situazione eccezionale degli ultimi decenni aveva costretto a tollerare30 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 509.]».

Questa monografia, che può essere assimilata ad una scrittura ufficiale in risposta ad un ricorso presentato da un gruppo di mercanti tedeschi e veneziani, e che, come abbiamo visto, ha come fine principale quello di dimostrare l'infondatezza degli argomenti addotti dagli stessi mercanti, presenta, anche se appena abbozzate, le idee economiche e monetarie più importanti di Costantini.

Il primo capitolo è un sommario di leggi, «antiche e recenti», in materia di pagamenti e di monete. Meritano di esser ricordate: 1) il proclama dell'Inquisitore sopra gli Ori e le Monete del 30 maggio 1739 che decretava la proibizione nei territori della Dominante di tutte le monete «basse» (le monete di rame o di bassa lega chiamate anche di "biglione") forestiere e fissava un prezzo in lire venete inferiore a quello corrente, un prezzo cioè «ribassato», per le altre monete che venivano «provisionalmente tollerate». La stessa legge stabiliva il limite del dieci per cento per l'utilizzo nei pagamenti dei «soldoni» e delle altre «monete minute venete»31 [L'utilizzo di queste monete provocava l'aumento dell'«aggio» della «partita di Banco»; quest'aggio, quando non superava la misura del 20% veniva normalmente tollerato dalla legge.], ed interdiva le monete d'argento stronzate (tosate) «quando il difetto oltrepassi due Caratti». 2) La terminazione del magistrato dei Deputati ed Aggiunti sopra la provvisione del denaro del 27 maggio 1739 che regolava la cosiddetta «aperta32 [Il governo della Repubblica quando ordinava la «aperta» depositava una somma di denaro nella cassa del Banco e dichiarava che il Banco, per un determinato periodo di tempo, avrebbe pagato in denaro contante le partite di coloro che avessero desiderato il rimborso, oppure avrebbe iscritto nuove partite a favore di coloro che avessero versato contanti alla cassa. La «aperta» della cassa del Banco già ordinata nel 1666 fu interrotta nel 1713 a causa della guerra di Morea.]» della cassa del Banco. Si pensò di ricorrere al provvedimento dell'«aperta» della cassa del Banco in primo luogo per porre fine alla «scandalosa» alterazione delle monete ed all'incremento del prezzo della partita di Banco che da questa derivava, ma anche per facilitare l'«esazione de' Pubblici Diritti», dato che i privati potevano «provvedersi, mediante la partita di Banco, di contante per pagar dazi, gravezze, ecc. sottraendoli così al pericolo di doversi procurare sul mercato, con discapito moneta effettiva33 [A. Soresina, Il Banco Giro ..., cit., p. 44.]».

L'«aperta» della cassa pose fine al corso forzoso della partita di Banco, che non doveva più essere acquistata ad un prezzo maggiore causato dall'aggio con il quale questa era valutata rispetto alle altre monete; da quel momento in poi, infatti, la moneta contabile del Banco Giro sarebbe stata venduta in cambio di monete ricevute e pagate «a giusto peso» e quindi "alla pari" rispetto al contante; la medesima legge prescriveva inoltre che il pagamento delle lettere di cambio delle piazze estere avvenisse obbligatoriamente con «Partita di Banco».

Ma il provvedimento, oggetto della disputa con i mercanti, è la terminazione dei Deputati ed Aggiunti alla provvisione del denaro e dell'inquisitore sopra gli Ori e le Monete del 24 gennaio 1749; questa prescriveva: il pagamento in banco delle cambiali superiori alla somma di «Ducati trecento Valuta di Piazza provenienti da qualunque luogo, benché suddito, ovvero circonvicino allo Stato, con tutto, che non comprendesser Cambi, ma soli Pagamenti di Merci34 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 6.]», ferma restando la libertà di effettuare in banco anche i pagamenti di somme inferiori a trecento ducati; il divieto di rilasciare protesti a cambiali diverse da quelle in partita di banco; l'obbligo del pagamento in banco oltre che degli oli, come stabilito da un precedente regolamento del 1738, anche per le sete, il caffè, le uvepasse, i cotoni grezzi e lavorati, ed «ogni genere di Mercanzia proveniente dal Ponente35 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 7.]».

Il capitolo secondo è dedicato alla esposizione di «alcuni Punti Generali di Commercio in relazione specialmente al Pagamento de' Prodotti, e Manifatture Aliene». Secondo Costantini i mercanti erano tenuti a rispettare le leggi del principe anche qualora le avessero ritenute contrarie ai propri interessi, che molto spesso non coincidevano con quelli dello Stato. La legge non doveva permettere la diffusione di pratiche pregiudizievoli per le attività mercantili, che al contrario dovevano essere stimolate; tuttavia, affinché gli interessi dei mercanti non venissero in nessun modo anteposti a quelli di tutta la collettività era necessario facilitare l'ingresso delle merci che formavano il commercio attivo, aggravando pesantemente le manifatture provenienti dall'estero perché concorrenziali a quelle nazionali.

Lo scrittore veneziano riteneva determinante la regolazione dei mezzi di pagamento: l'alterazione della moneta, definita come «l'equivalente di tutte le merci», provocava l'alterazione del valore di tutte le merci e grande pregiudizio al commercio. L'«aperta» della Cassa del Banco avrebbe introdotto un elemento di certezza nelle contrattazioni e negli acquisti delle merci, in particolar modo di quelle estere perché da quel momento i pagamenti sarebbero stati eseguiti con «moneta buona sempre fissa, ed inalterabile nel suo valore intrinseco, com'è la Partita di Banco con la Cassa aperta36 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 10.]», non soggetta alle adulterazioni cui venivano sottoposte le valute correnti.

Nel capitolo terzo vengono trattati «alcuni principj di ragione, sopra quali sono fondate le Leggi de' Principi intorno le Monete37 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 13.]». Le monete di bassa lega d'argento o di rame, comunemente dette di biglione, erano quelle normalmente utilizzate nel commercio minuto (per i piccoli pagamenti); il loro valore, al contrario di quanto accadeva per le monete nobili, non doveva necessariamente coincidere con il valore del metallo in esse contenuto, perché non avevano alcun valore liberatorio fuori dello Stato e potevano essere emesse «ad libitum».

Era però necessario che le monete di biglione non venissero coniate in quantità superiore a quella necessaria al minuto commercio, perché tale eccedenza avrebbe inevitabilmente provocato la scarsità delle monete nobili di buona lega e di conseguenza l'alterazione del loro valore, si sarebbero cioè verificati gli effetti della "cosiddetta" «Legge di Gresham». Le medesime pregiudizievoli conseguenze si sarebbero verificate a seguito dell'introduzione di monete forestiere ad un prezzo eccedente il loro valore intrinseco, con il risultato di ostacolare le attività commerciali ed impoverire lo Stato.

Il modello da seguire, secondo Costantini doveva essere la condotta Zecca della Repubblica di Venezia, che non aveva mai permesso l'alterazione del valore intrinseco delle sue monete nobili: lo zecchino d'oro e il ducato d'argento, il cui prezzo era stato fissato in proprio in quegli anni per adeguare la loro proporzione a quella dei metalli preziosi rispettivamente a lire ventidue e lire otto.

La regolazione delle monete ed in generale dei pagamenti delle merci aveva come oggetto principale «il bene del Commercio», e dato che i pagamenti dovevano venir eseguiti con monete nobili, era preferibile utilizzare la più nobile delle monete: la «partita di Banco».

Da queste premesse teoriche scaturisce la dura condanna dello scrittore nei confronti di tutti coloro, definiti i «Sicarj, e gli Assassini dello Stato», che «si applicano all'introduzione delle «cattive» Monete Forastiere coll'estrazione delle buone nazionali, e parimenti quelli, che si dilettano di tosarle38 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 15.]».

Queste attività criminali cagionavano il continuo aumento del prezzo delle monete nobili (preservate dalle alterazioni) e lo svilimento di quelle di bassa lega dato che di queste «tante più ve nè vogliono à formare una Moneta Nobile, come per esempio, quando un Zecchino vale Lire vintidue, giusto la grida vi vogliono ottanta otto da cinque di detta moneta nuova, ma quando si è alzato, come di là del Minzio Lire vintitrè, ve ne vogliono nonnantadue, dunque per ogni Zecchino è rimasta avvalita la Moneta nuova di quattro da cinque39 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., pp. 15-16.]».

La presenza di truppe straniere, impegnate in numerose guerre sul territorio italiano dall'inizio del XVIII secolo, aveva contribuito in maniera decisiva al disordine monetario esistente, perché il pagamento dei soldati normalmente avveniva con monete in gran parte alterate. La guerra di successione austriaca, a seguito della quale soprattutto i territori situati al di là del Mincio erano stati riempiti di monete cattive, di bassa lega o stronzate (tosate), aveva arrecato un grande pregiudizio alla Repubblica di Venezia; la presenza di una grande quantità di monete "cattive" aveva provocato la rarefazione del circolante nobile, che veniva immediatamente tesaurizzato oppure utilizzato per movimenti speculativi, e quindi una serie di gravi difficoltà per i pagamenti delle merci. Terminata la guerra, Venezia non avrebbe potuto sopravvivere senza una «regolazione delle Monete coll'espurgo, Cambio, e Bando respettivo delle Monete Forastiere».

Insieme alla «regolazione» delle monete era inoltre necessario che i mercanti eseguissero i pagamenti in conformità con quanto stabilito dalle leggi sopra citate, e cioè che i pagamenti superiori a trecento ducati non venissero eseguiti con «lettere di cambio senza procura», il pagamento delle quali si effettuava «il più delle volte con Viglietti di Soldoni, con Monete nuove, e con stronzate, ò con buone monete, bensì, ma con qualche alzamento dal legal loro valore, come Doppie, Gigliati, Genuine, ed' altre, tutto in onta delle Leggi, e con danno sensibile del universale Commercio40 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 21.]».

I mercanti da parte loro pur riconoscendo che i pagamenti effettuati con le monete piccole avrebbero potuto provocare dei disordini desideravano la sospensione dei provvedimenti che regolavano i pagamenti superiori a trecento ducati per le ragioni riassunte di seguito. La terminazione dei Deputati ed Aggiunti del 1749 abrogava il precedente regolamento che permetteva il pagamento delle «Lettere fuori Banco, ed in Moneta corrente», per le esigenze dei privati, quali potevano essere le lettere di cambio utilizzate nei piccoli commerci sia tra le città dello stato, che con le città circonvicine. La necessità di premunirsi di partita di Banco anche per questo tipo di operazioni, avrebbe quindi creato notevoli disordini pregiudizievoli all'«affluenza del libero commercio» e favorevoli alle Piazze concorrenti. I mercanti, che dai bottegai venivano pagati in moneta corrente, al momento di effettuare i pagamenti si sarebbero visti costretti ad acquistare la moneta di Banco, con una perdita evidente per ogni operazione.

Inoltre, l'obbligo anche per i bottegai di effettuare i pagamenti in partita di Banco avrebbe provocato un ulteriore aumento del prezzo di quest'ultima nei confronti delle altre monete; e vista l'alterazione alla quale venivano sottoposte le monete, la necessità di premunirsi di monete adatte all'acquisto della partita di Banco «fomenterebbe» l'attività dei cambiavalute. Infine, di fronte alle difficoltà di trovare in tempi brevi un acquirente con disponibilità immediata di partita, come accadeva nei pagamenti effettuati con valuta corrente, i proprietari delle merci si sarebbero visti costretti a negoziar altrove, con «pregiudizio al Commercio, e discredito alla Piazza».

Le argomentazioni dei mercanti erano fondate sia su quanto era realmente successo immediatamente dopo l'emanazione dei regolamenti del 1749, quando si era effettivamente verificata una «ristrettezza di Partita», sia sul principio della libertà di commercio, che avrebbe dovuto consentire la possibilità di scegliere il modo nel quale eseguire i pagamenti, in valuta corrente o in partita di Banco.

Costantini da parte sua confutava ciascuna delle singole argomentazioni addotte dai negozianti i quali non potevano difendere le proprie ragioni con lo «specioso» argomento della libertà di commercio. Essi dovevano innanzitutto riconoscere i disordini provocati dall'utilizzo nei pagamenti delle merci di monete destinate al commercio minuto in primo luogo perché questa pratica provocava la scarsità di tali monete nei territori periferici dove venivano incettate per essere utilizzate nei pagamenti che normalmente avvenivano a Venezia.

Egli rispondeva così alle lamentele dei mercanti. La terminazione dei Deputati ed Aggiunti del 1749, abrogando il precedente regolamento, permetteva il pagamento delle «Lettere fuori Banco, ed in Moneta corrente», ma fissava chiaramente il limite di trecento ducati, superato il quale i pagamenti non potevano più essere considerati attinenti alle esigenze dei privati e dei piccoli commerci delle città venete. La difficoltà ipotizzata dai mercanti di premunirsi di partita di Banco non sussisteva giacché tale partita poteva essere acquistata «alla pari» portando al Banco «Ducati, e Filippi di peso, o Zecchini, Gigliati, ovvero Ongari a valore di Proclama».

Il fine della terminazione del 1749 non era certamente quello di compromettere l'«affluenza del libero commercio» e favorire le Piazze concorrenti, ma di riordinare il sistema monetario e l'utilizzo dei mezzi di pagamento per assicurare una maggiore prosperità.

Il riordino delle monete avrebbe permesso anche ai bottegai di pagare i mercanti con monete buone adatte all'acquisto della partita di Banco «alla pari» (ferma restando la possibilità di utilizzare nei pagamenti «Monete nuove e Soldoni», limitatamente al dieci per cento del totale) e quindi la sicurezza di ricevere buone monete avrebbe inoltre prodotto un maggior afflusso di merci.

L'attività dei cambiavalute sarebbe stata resa vana dalla possibilità di cambiare alla Zecca le monete scarse, e dalla possibilità di acquistare, con le monete ricevute in cambio, partita di Banco. L'opportunità che i privati avevano di cambiare le monete alla zecca faceva parte di un progetto generale di riforma, chiamato «regolazione delle Monete», che Costantini avrebbe voluto vedere attuato, a cominciare dalla terminazione dei Deputati ed aggiunti del gennaio 1749, per evitare che dai territori della Repubblica che si trovano al di là del Mincio «questo morbo pur troppo contagioso, che ha gia cominciato ad infettare il Territorio Veronese passi per fino alla Dominante41 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 41.]».

Il «morbo contagioso» di cui parla lo scrittore avrebbe provocato l'accrescimento delle monete e sarebbe stato accompagnato da una serie di conseguenze estremamente negative; infatti «crescono coll'accrescimento delle Monete li prezzi delle Robbe, ma non s'aumentano in proporzione le Mercedi degli Operaj avviene, che le Strade, e le Chiese veggansi piene di Questuanti con la falda d'avanti, e poi si piange l'infelicità delle Manifatture, e li discapiti arrecati dalle Emmule Piazze42 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 41.]». Da questo passo si evince che egli percepisce chiaramente i gravi danni provocati dall'inflazione che andavano soprattutto a detrimento dei redditi dei più poveri, incapaci di adeguarsi a prezzi continuamente crescenti.

La libertà di commercio non poteva prescindere quindi da un sano regolamento delle monete, dato che queste «formano il vero sangue per così dire, che può tenere in moto, ed in vita il corpo morale delle Arti, e del Commercio medesimo43 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 42.]»; questo regolamento doveva imporre in primo luogo l'utilizzo nei pagamenti della partita di Banco, «la sola formata di Buona Moneta, e capace di reprimere il male delle Monete alterate44 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 42.]».

Le difficoltà prospettate dai negozianti non esistevano assolutamente; i proprietari delle merci che venivano pagati con partita di Banco ne avrebbero avuto sicuramente «piacere e vantaggio», con essa infatti potevano facilmente acquistare monete pregiate; i mercanti, da parte loro, se avessero desiderato una disponibilità immediata di moneta corrente, potevano ottenere dall'Inquisitore sopra gli Ori e le Monete il premesso di esser pagati fuori di Banco, fermo restando l'obbligo di utilizzare nei pagamenti monete permesse dalle leggi. Infine l'«aperta» della zecca, cioè la possibilità di reperire monete adatte all'acquisto di partita di Banco avrebbe posto termine alla «ristrettezza di Partita» che si era verificata.

4. Delle monete in senso pratico e morale

Nel 1751 Girolamo Costantini pubblicò Delle monete in senso pratico e morale, scritto nel quale si occupa esclusivamente di problemi monetari. Il trattato si apre con la definizione di moneta, «ente reale d'ogni commerzio, inventata per comodo delle commutazioni delli generi necessarj, e voluttuosi, è misura, e valore di tutte le cose45 [Girolamo Costantini, Delle monete in senso pratico e morale. Ragionamento diviso in sette capitoli, Venezia, Simone Occhi, 1751, ristampa anastatica, Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1979, p. 1.]». Definizione dalla quale scaturisce la necessità di conferire alla moneta il giusto valore: ogni sua sproporzione avrebbe fornito una misura falsa delle cose che essa misura.

Il vero valore delle monete, si affretta a precisare Costantini, era soltanto quello considerato dai «commerzianti nei loro cambi», e cioè il valore intrinseco; ogni valore diverso da quello intrinseco è l'effetto di quello che lui chiamava «aggio pestilenziale». La causa principale dell'aggio era la sproporzione esistente tra il valore delle delle monete, della quale ne approfittavano mercanti poco scrupolosi. Questi avidi speculatori, approfittando dell'ignoranza del popolo riuscivano a guadagnare ingenti somme a scapito dell'intera nazione, e soprattutto delle classi più povere.

Lo squilibrio nasceva da tre cause principali: il valore che le zecche assegnavano alle monete; la introduzione, nei momenti di guerra, di monete forestiere aventi un valore alterato; l'«avarizia» che spingeva gli speculatori ad esportare le buone monete nazionali in cambio di monete alterate, lucrando così la differenza, pratiche - concludeva Costantini - palesemente contrarie alle leggi positive, ispirate al diritto naturale.

Le leggi sulle monete erano però diverse in tutti gli stati perché scaturivano dalle situazioni economiche disuguali per ciascuno Stato; esse, tuttavia, andavano sempre rispettate perché tendevano tutte al bene comune. Ciascun principe avrebbe dovuto vigilare sulla osservanza delle leggi da lui stabilite in materia di monete per conservare la giusta proporzione del valore delle stesse all'interno del proprio territorio; infatti, un accordo con il quale tutti i governi avessero stabilito una «egual proporzione delle monete», attraverso delle leggi uniformi sarebbe stato auspicabile ma di difficilissima realizzazione («desiderabile, ma non già sperabile»).

La varietà delle monete non avrebbe impedito in nessun modo lo sviluppo dei commerci, così come non lo impedivano la difformità dei pesi e delle misure che si poteva riscontrare non solo tra i diversi regni ma anche tra le città di uno stesso regno; la moneta, essendo «misura e valore di tutte le cose», poteva essere «ragguagliata nel commerzio cogli esteri a similitudine delle misure, e dei pesi46 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 6.]», e così come si osservavano le leggi sulle misure e sui pesi si sarebbero dovute osservare quelle in materia di monete.

Costantini distingue le monete «visibili, e materiali» dalle monete «invisibili, ed ideali», queste, al contrario delle prime, non potevano essere sottoposte ad alcun processo di alterazione. Per meglio illustrare questa differenza l'autore si serve dell'esempio dello Stato veneto, nel quale il ducato, fino all'inizio del secolo XVIII, valeva l. 6. s. 4.; ma in seguito alle guerre di successione, ed alle conseguenti svalutazioni, il governo veneziano fu costretto a fissare il valore del ducato a l. 8., e quello dello zecchino a l. 22.

A tali alterazioni non fu mai sottoposta la moneta ideale di Venezia, identificata con la «moneta di Banco», ed assimilabile a quelle monete utilizzate «in tutte le città di buon commerzio» come gli «scudi d'oro stampe, scudi d'oro marche, scudi oro, sole, scudi imperiali, ducati di Regno47 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 8.]»; tutte queste monete, alle quali se ne potevano aggiungere molte altre, servivano esclusivamente «all'offizio dell'Aritmetica».

La «lira di Banco», equivalente a «ducati dieci di Banco» che corrispondevano a «ducati dodici effettivi», aveva la funzione principale di servire di «comodo, e benefizio al commercio: perché ritenendo sempre in sè stessa la bontà, peso, e valore del ducato effettivo, o proporzionalmente dello Zecchino Veneto, che sono le due spezie di monete nobili, che entrano, ed escono a comodo universale dalla cassa, che forma il fondo del Banco48 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 8.]».

La incorruttibilità di questa moneta aveva indotto il governo veneto ad obbligare i mercanti ad utilizzarla per eliminare le frodi che derivano dai pagamenti fatti con monete straniere alterate di prezzo, con monete stronzate (tosate), oppure con monete di biglione. La moneta di Banco, chiamata anche «buona valuta» per distinguerla dalle monete correnti, correva inoltre con un aggio determinato dalla legge in misura pari al venti per cento rispetto a tutte altre valute.

Costantini, in riferimento alle monete reali, distingue «quelle, che destinate sono per gli usi del nobile commerzio interno ed esterno, dall'altre, che sono per il solo interno, e minuto traffico istituite49 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 11.]». Nel valutare le prime si doveva tener conto innanzitutto della proporzione esistente tra il valore dell'oro e quello dell'argento, senza tuttavia tralasciare le «spese necessarie allo stampo, con l'unione del diritto di regalia, o altrimenti si dica di signoraggio50 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 11.]». Solo in questo modo si poteva dire che esse erano valutate in base al loro valore «intrinseco».

I disordini monetari e la sproporzione tra le monete derivano, invece, dalla presenza di un valore eccedente quello intrinseco, chiamato valore «estrinseco». Tale valore, ripeteva il Nostro Autore, era il risultato di tre tipi di alterazioni: quella eseguita dalle zecche, che coniavano monete con metalli alterati di peso o di bontà; quella praticata dai mercanti, che «con li loro cambj, e ricambj, e per così dire con gl'infiniti artifizj, introducono le alterazioni nelle monete51 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 12.]»; infine, quella ordinata dai prìncipi, che assegnavano alle monete un «valore politico».

Il valore politico stabilito dal principe era, a differenza di quello che scaturiva dalle alterazioni, un valore «benefico» perché permetteva di privilegiare le monete nazionali rispetto a quelle estere. Nel caso dello zecchino veneto, ad esempio, la valutazione superiore era giustificata anche dal fatto che al contrario delle altre monete d'oro, questa era l'unica coniata con metallo purissimo alla bontà di ventiquattro carati [il Governo della Serenissima controllava direttamente il conio delle sue monete, contrariamente a quanto facevano gli altri sovrani che ricorrevano agli appalti]; la sopravvalutazione di detta moneta favoriva, inoltre, indirettamente l'attività della Zecca in primo luogo perché «più facilmente concorrer vi possono gli ori forestieri» e poi perché in questo modo si impediva la fusione di queste monete, che venivano ricevute ad un prezzo superiore rispetto alle altre.

Molto importante ci sembra la precisazione fatta dallo scrittore in riferimento al rapporto tra il valore dei metalli preziosi; egli sostiene, infatti, che «benchè il valore dell'oro, e dell'argento in massa sia respettivamente eguale per tutta l'Europa, non è per questo, che la proporzione analoga, che sussister sempre deve fra l'oro e l'argento, abbia ad esser uguale nelle monete di cadauna Zecca52 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 13.]». L'assenza di tale uniformità era il risultato delle diverse spese di trasporto di questi metalli, e soprattutto dei diversi costi di monetaggio, dei diritti di signoraggio, e del valore politico da ciascun principe assegnato alle proprie monete.

Tali premesse venivano utilizzate per confutare le argomentazioni degli scrittori i quali avrebbero voluto affidare la soluzione dei gravi problemi monetari esclusivamente ad un accordo tra tutte le Zecche d'Italia con il quale giungere ad una valutazione uniforme di tutte le monete.

Il ragionato Costantini, constatata la impossibilità di un accordo in tal senso, auspica il rispetto da parte di poche fondamentali regole atte ad eliminare gli squilibri esistenti tra le proprie monete, causa principale dei disordini. Egli suggeriva innanzitutto di battere due sole monete nobili, una d'oro e l'altra d'argento per evitare che una molteplicità di monete differenti, coniate con metalli diversi di peso e di lega, favorisse l'attività dei «trafficanti», i quali ad «ogni minuta occasione, promovono l'alterazioni, e col mezzo dell'inchietta di alcune, e con l'introduzione di altre, formansi le ricerche, dalle quali derivano poi li sopraggi, e da questi le maggiori alterazioni, e sconcerti53 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 14.]».

Sotto il nome di «veglioni, ovvero beglioni» egli comprende, così come aveva fatto nello scritto precedente, tutte quelle monete coniate con lega d'argento oppure con semplice rame, «per gli usi del proprio minuto traffico interno». Il sovrano ricavava dal loro stampo un diritto di signoraggio maggiore rispetto alle altre monete, dato che nel fissare il loro valore non doveva tener conto della «proporzione rigorosa» del valore dei metalli, come accadeva nel caso delle monete nobili.

Era tuttavia necessario che la quantità di «veglioni» coniata non superasse quella occorrente al «minuto traffico antedetto, altrimenti la soprabbondanza sconcerterebbe il buon ordine delle monete nobili», «così come la penuria di questi introdurrebbe li veglioni forestieri54 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 17.]». Anche il prezzo di queste monete, contrariamente a quanto si credeva, era sottoposto ai processi di alterazione a causa del comportamento riprovevole di coloro che prima di ogni regolazione «ne fanno le inchiette», coll'effetto di aumentare le alterazioni delle monete nobili e di favorire le incette di «veglioni» esteri.

I principali responsabili delle alterazioni monetarie rimanevano gli speculatori ed i loro «dannati traffici» sulle monete; costoro, approfittando dell'ignoranza «de' poveri rustici, di alcuni artigiani, e delle persone semplici», facevano circolare monete alterate e tosate, il commercio delle quali avrebbe dovuto esser vietato dalle leggi del principe. La presenza di monete con un contenuto metallico compromesso provocava la sopravvalutazione delle monete "buone" (le monete nobili preservate dalle alterazioni) e «gravi pregiudizj all'universale».

Il capitolo terzo è dedicato all'esame dei «mali che dalle alterazioni risultano». Coloro che possedevano «entrate d'affitto, e censi, ed altre simili rendite» erano i primi che sperimentavano gli effetti negativi delle manipolazioni monetarie, le loro entrate infatti si riducevano in misura proporzionale all'«accrescimento» delle monete. Per dimostrare questo assunto Costantini utilizza l'esempio del proprietario di uno stabile che, prima dell'alterazione delle monete, «esigeva d'affitto, di livello, o di censo privato», 100 ducati equivalenti a lire 620; ma essendo il valore del ducato cresciuto da l. 6 s. 4 a l. 8, a causa dell'alterazione «l'affittuale, il livellario, o il censuario» potrà soddisfare il suo debito con appena 77 ducati e mezzo, equivalenti a lire 620; il medesimo proprietario, oltre a ricevere d'affitto una somma inferiore di 22 ducati e mezzo effettivi, avrebbe assistito impotente all'aumento delle «le proprie gravezze» dato che queste continuavano ad esser calcolate sopra la rendita di 100 ducati. Infine, dato che l'aumento del valore delle monete aveva provocato l'accrescimento dei prezzi dei beni, ed in particolare dei beni di prima necessità, per le spese di mantenimento della famiglia sarebbe stata necessaria una somma maggiore di monete.

La prova più convincente è comunque quella che Costantini ricava dalle carte dei frati del convento di S. Angiolo d'Asolo, dove si era ritirato nell'estate del 1750 per scrivere queste pagine. Dai documenti esaminati risultava che dai livelli fatti alla fine del 1400 si ricavava quattro lire al campo per quelli in contanti ed uno «staro» per «quelli in specie di formento». L'accrescimento progressivo del valore della moneta nei secoli aveva spinto i livelli in contanti a ventidue lire al campo, mentre i livelli «in specie di formento» erano rimasti ad uno «staro» per campo; i campi che duecento cinquant'anni prima erano stati livellati a lire quattro al campo, rendevano alla metà del Settecento una cifra irrisoria rispetto ai campi livellati «in specie di formento», che rendevano circa ventidue lire, secondo della «maggiore o minore abbondanza» del frumento55 [Il continuo svilimento della moneta provocava la riduzione progressiva dei pagamenti che derivavano da censi, livelli, locazioni perpetue, decime, enfiteusi, cioè dei pagamenti annui che duravano a lungo nel tempo. Gli effetti economici che le svalutazioni provocavano, chiaramente avvertiti dagli scrittori, che, da Innocenzo III in poi, cercarono di individuare gli strumenti in grado di mantenere i redditi in questione nella primitiva consistenza, furono sperimentati dai soggetti attivi ai quali risultavano chiari i vantaggi economici derivanti dalla riscossione di un censo in natura (in questo caso il campo livellato «in specie di formento») piuttosto che «in contanti». Per questi motivi le continue alterazioni della moneta furono molto importanti per la sopravvivenza della cosidetta «economia naturale», rispetto all'«economia monetaria». Quest'aspetto non è stato purtroppo messo in luce in alcuni lavori dedicati all'argomento in questione [A. Dopsch, Economia naturale ..., cit. - E. Stumpo, Economia naturale ed economia monetaria: l'imposta, in Storia d'Italia. Annali 6 ..., cit., pp. 521-562 - L. Faccini, Affitti in denaro e salari in natura. Le contraddizioni apparenti dell'agricoltura lombarda (secoli XVII-XIX) in Storia d'Italia. Annali 6 ..., cit., pp. 649-670]. Lo storico austriaco, ad esempio, pur avendo giustamente rilevato che «anche il capitalismo monetario dell'età moderna si serve dell'economia naturale» perché questa specie di pagamento risulta in alcuni casi più conveniente (Dopsch ed altri parlano espressamente di «vantaggi economici»), non fa alcun cenno alle alterazioni monetarie che, forse più di tutte, resero svantaggioso il pagamento in moneta.].

Le alterazioni monetarie provocavano la recessione delle attività commerciali, perché l'aumento dei prezzi generava uno stato di incertezza e una diminuzione dei consumi. Ma, ripetendo quanto aveva già scritto56 [Girolamo Costantini, ESAME Delle cose ..., cit., p. 41.], egli precisa che «il danno che move la compassione maggiore è quello che risentono li poveri artisti, ed i rustici».

Pur ammettendo che l'inflazione produceva effetti negativi per tutte le classi sociali, egli sostiene che il danno più grave era quello subito dagli artigiani, i quali producevano gran parte delle merci scambiate sui mercati, e dai contadini, ai quali si dovevano i prodotti necessari al sostentamento. Costoro non riuscivano ad ottenere un aumento dei loro compensi proporzionato all'aumento dei prezzi perché nella maggior parte dei casi venivano pagati in «veglioni», e cioè con monete «che non furono capaci d'accrescimento come le monete nobili». Dalle strade e dalle chiese piene di questuanti si capiva che la loro situazione, gia precaria prima dell'aumento del valore delle monete, era divenuta insostenibile.

Questo stato di cose avrebbe finito per compromettere anche l'erario del principe. In primo luogo perché, come abbiamo visto, l'aumento del valore delle monete si traduceva, per coloro che possedevano «entrate d'affitto, e censi, ed altre simili rendite», in una grave perdita e quindi in una diminuzione dei consumi totali della collettività. Inoltre, dato che i pubblici pagamenti dovevano esser effettuati in «moneta regolata», la misura del loro aumento risultava più che proporzionale all'aumento del valore delle monete; se, ad esempio, la svalutazione era stata del ventidue e mezzo per cento, l'aumento delle «gravezze» sarebbe risultato pari al ventinove per cento in ragione della valutazione maggiore che riceveva la moneta effettiva (regolata) rispetto alla moneta di piazza. Ma il danno maggiore sarebbe risultato dal fatto che l'aumento di «ogni dazio, ed ogni gabella» avrebbe provocato inevitabilmente l'aumento del contrabbando ed una corrispondente diminuzione delle entrate del sovrano.

È molto interessante notare come il giudizio sugli effetti dell'aumento del valore delle monete sulle entrate dello Stato è diametralmente opposto a quello formulato da Galiani. L'abate napoletano aveva infatti ipotizzato che nella maggior parte dei casi l'«alzamento» delle monete avrebbe avuto l'effetto di diminuire la tariffa dei tributi e di conseguenza sarebbe aumentato il gettito totale delle imposte.

Nonostante sull'argomento delle monete fossero state scritte in quello stesso periodo un gran numero di opere di carattere erudito, Costantini sosteneva che i rimedi ai «mali» non dovevano essere cercati sui «libri stampati», ma bisognava ricorrere «agli esempi, ed alli metodi di varie precedenti proficue regolazioni», perché l'esperienza poteva essere più utile di ogni dottrina.

L'esperienza alla quale faceva riferimento Costantini era ovviamente quella che egli meglio conosceva e cioè la realtà della Repubblica di Venezia, che in passato aveva già affrontato con successo simili vicissitudini.

I problemi monetari si presentavano sempre con caratteristiche diverse da un luogo all'altro, era necessario quindi, se si doveva fare riferimento alle opinioni degli gli scrittori, considerare soltanto quelle che «si credono convenienti al luogo, al tempo, ed alle circostanze presenti57 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 40.]».

Molto importante è la precisazione a proposito dell'opera di Geminiano Montanari (insieme a Locke l'unico autore citato in questo trattato); secondo Costantini l'opera che compariva nella parte terza del De monetis Italiæ col titolo Trattato del valore delle monete in tutti gli stati, riproduceva solo parzialmente un manoscritto dello stesso Montanari da lui posseduto intitolato La zecca in consulta di Stato, trattato che nel 1759 venne poi opportunamente inserito nella parte sesta del De monetis Italiæ.

Per fronteggiare i disordini provocati dalle alterazioni monetarie Costantini propone l'applicazione di una serie di misure concrete ed immediate; misure che possono esser così sintetizzate: la «espurgazione», cioè il ritiro, di tutte le monete «stronzate e, scarse»; il «bando assoluto» delle monete di biglione forestiere; la diminuzione del prezzo delle monete forestiere alterate, in attesa del divieto assoluto delle stesse; la uniformità di valore delle monete in tutte le città del dominio terrestre; il divieto della alterazione della lega delle monete a seguito di una variazione del prezzo commerciale dei metalli preziosi, a seguito della quale sarebbe sempre dovuto seguire un adeguamento proporzionale del prezzo delle monete.

Insieme a tutte queste misure, che egli definiva «regolazione», e che concretamente comportavano una diminuzione del prezzo delle monete, ribadiva, ancora una volta, la necessità di effettuare i pagamenti di «somme non tenui» in partita di Banco e quindi la necessità dell'utilizzo delle due monete nobili veneziane, cioè dello zecchino e del ducato, auspicando che la zecca veneta continuasse a coniarle senza interruzione.

Siffatti regolamenti, uniti ad una legislazione che mirasse a reprimere tutte le pratiche come lo «stronzamento» (la tosatura) e la falsificazione, avrebbero potuto ottenere lo stesso effetto della «general concorde proporzione fra tutte le Zecche d'Italia», desiderata da alcuni scrittori, avrebbero potuto, cioè, eliminare quei «mali» che derivavano dall'accrescimento di valore delle monete.

La parte centrale del trattato viene sviluppata utilizzando un metodo molto caro a Costantini; egli infatti espone, così come aveva già fatto nella precedente memoria, le opinioni contrarie («obietti») ai suoi princìpi, passando quindi a confutarle («risoluzione degli obietti»). Per la importanza del tema trattato, riteniamo necessario, al contrario di quanto abbiamo fatto per l'opera precedente, esporre in modo più dettagliato gli «obietti58 [Le argomentazioni contrarie al provvedimento di «regolazione» delle monete non erano del tutto fuori luogo. A questo provvedimento, che può essere assimilato ad una rivalutazione e che Bloch (vedi: Lineamenti ..., cit., pp. 94-95) chiama un aumento «del tenore metallico della unità di conto», si accompagnavano una serie di problemi, come quello di «rimediare ai disordini che indebolimenti ripetuti ed eccessivi avevano apportato alla circolazione». Innanzitutto, poteva accadere che la previsione di un rafforzamento (rivalutazione) inducesse i mercanti di metalli preziosi «ad esigere prezzi tanto più alti in quanto essi pensavano di vedere, in caso di rafforzamento, i pezzi che ricevevano diminuire di valore monetario», con il risultato che il re veniva spogliato del guadagno sulla monetazione. Inoltre, i rafforzamenti delle monete incontrarono l'ostilità più viva di tutta una parte della popolazione. In primo luogo perché provvedimenti tali recavano pregiudizio ai tesaurizzatori (effetto rilevato anche da Costantini); ciò può sembrare strano in quanto «oggi una deflazione mi favorisce se ho tesaurizzato non solo sotto la forma aurea, ma anche in biglietti o in conti di banca; infatti, ho ragione di sperare che questa somma, al ribassarsi dei prezzi, vedrà alzare il suo potere d'acquisto e crescere ugualmente le sue possibilità di scambio con monete straniere». Nei sistemi monetari anteriori alla rivoluzione francese accadeva che il provvedimento di rivalutazione si risolveva in una diminuzione, ad esempio, del valore dello zecchino da l. 23 a l. 17. Il «ribasso dei prezzi - o, quanto meno, questo arresto del loro rialzo che per lo più faceva seguito al ritorno a una moneta relativamente forte - sembra proprio dovesse apparire auspicabile a certe classi economiche: ai rentier, per esempio, che vedevano allora nello stesso tempo le loro rendite valorizzarsi e le loro spese diminuire».]» e le «risoluzioni».

In primo luogo la «regolazione» delle monete avrebbe costretto i mercanti che vendevano i loro prodotti all'estero ad abbandonare questi traffici per la minore valutazione che ricevevano le monete nel proprio paese. Costantini afferma che la differente valutazione, ad esempio, dello zecchino veneto a Milano (l. 22) e a Brescia (l. 17) non avrebbe impedito ai mercanti di quest'ultima città di continuare i loro traffici con la città lombarda dove la moneta in questione è «composta di una parte di reale, e d'un altra d'ideale». Sarebbe infatti accaduto che in breve tempo i prezzi delle merci si sarebbero livellati a quelli delle monete come era già avvenuto con la regolazione del 1687 che «non apportò il minimo pregiudizio, o sconcerto, alli negozianti colle piazze estere, ma s'accrebbe di gran lunga il commerzio59 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 64.]».

La maggiore valutazione delle monete, affermavano alcuni, comportava un maggior afflusso di merci e uno sviluppo del commercio; pertanto «l'alzamento del valor delle monete non porta alcun influente di male nè alle sostanze de' privati, nè al Pubblico». Costantini rispondeva che se si osservavano le città dove «la moneta aveva maggior valore» si poteva dimostrare la infondatezza di una simile affermazione; l'esperienza dimostrava che alla sopravvalutazione della moneta si accompagnava sempre un aumento generalizzato dei prezzi «con danno dell'universale commerzio».

Con le medesime argomentazioni i «mercanti della Piazza di Venezia» sostenevano la necessità di pervenire ad una «regolazione» delle monete. I loro ragionamenti, al contrario di quelli dei dottori e dei filosofi non si fondavano sulla «vanità delle parole», ma sul «fatto» e sull'«esperienza».

A Gianrinaldo Carli il quale aveva scritto che ogni regolazione delle monete era destinata a fallire senza un preventivo accordo tra tutte le zecche italiane per giungere ad una «comune proporzione delle monete d'oro e d'argento» Costantini rispondeva che una simile intesa, anche se «più che necessaria», era quasi impossibile da raggiungersi; l'Italia, a differenza di Francia ed Inghilterra non dipendeva da un solo Governo, nel suo territorio operavano diverse Zecche che battevano monete con lega e valore conformi «alle loro particolari massime, relative a loro particolari commerzj, ed interessi60 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 67.]».

Lo stesso scrittore dichiarava inoltre quanto fosse inopportuno il divieto del libero commercio delle monete giacché «non sono i metalli di cui è composta [la moneta] altro che merce61 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 56.]». Obietto questo considerato «falso, falsissimo» dal Nostro Autore per il quale i prìncipi, dato che i metalli preziosi, una volta monetati, «non cambiano natura, ma solamente il nome», avevano l'obbligo di preservare il loro valore dalle alterazioni degli uomini attraverso delle leggi come il divieto di libero commercio sulle monete, leggi che i sudditi erano tenuti a rispettare.

La «uniforme corrispondenza con le altre Piazze» non era soltanto auspicabile, affermavano i suoi «opponenti», ma una condizione senza la quale non poteva essere realizzata nessuna regolazione delle monete; era infatti logico ipotizzare che a seguito di una regolazione che avesse sensibilmente ridotto il valore della moneta in una sola nazione, questa moneta sarebbe stata immediatamente trasportata «ove avesse maggior prezzo» col risultato di lasciare lo stato «esausto».

L'autore veneziano superava tale «obietto» facendo ricorso ancora una volta all'esperienza; di fronte alle regolazioni compiute in passato non si erano mai verificati questi effetti, che erano il prodotto di «semplici immaginazioni della fantasia».

Ricorrendo ad una analogia, forse mutuata da Montanari, Costantini affermava che la natura del commercio era tale che questo «col mezzo del flusso, e riflusso antedetto, viene finalmente a livellarsi come l'acqua62 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 71.]»; l'uscita delle monete nazionali si sarebbe verificata quindi solo in misura ridotta dato che i guadagni sarebbero stati solo apparenti.

Gli «opponenti» ipotizzavano inoltre che lo «sbando» delle monete forestiere avrebbe comportato la sparizione di ogni sorta di «traffico e commerzio», perché i mercanti che si rivolgevano a Venezia dagli Stati dell'interno per procacciarsi quelle merci che giungevano esclusivamente nei porti si sarebbero rivolti dove «maggiori facilità incontrano, e dove corso più libero anno quelle monete, che essi posseggono63 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 72.]».

La realtà ancora una volta dimostrava il contrario; un forestiero che ad esempio si fosse recato in Francia oppure in Inghilterra, nazioni nelle quali avevano corso solo le monete nazionali, avrebbe potuto cambiare la propria moneta «a peso di marco e a valor dell'oro di quei regni».

Le regole vigenti in materia monetaria nei grandi stati, secondo Costantini, potevano essere introdotte anche negli Stati più piccoli e per dimostrare per la validità universale delle stesse utilizza l'esempio di una comunità di dimensioni estremamente ridotte come «un privato negozio, in cui fabbricasi taluna manifattura». In questi opifici dove si vendevano «le cose necessarie al vitto, e vestito» gli operai venivano normalmente pagati con «segni di piombo» che potevano essere spesi all'interno del «negozio» oppure essere convertiti in «buone monete» per essere spesi «fuori dal recinto».

La regolazione delle monete, riducendo il valore delle medesime, avrebbe provocato una serie di conseguenze negative. I «denarosi» (i "tesaurizzatori", vedi nota 58), ad esempio, che possedevano cento ducati effettivi per un valore di lire ottocento, essendo, a seguito della regolazione, sceso il valore del ducato da lire otto a lire sei e soldi quattro, si sarebbero trovati in possesso di seicento venti lire con una perdita di cento ottanta lire; allo stesso modo i mercanti, che avevano acquistato merci per cento ducati ovvero per ottocento lire, dopo la regolazione, rivendendo la merce ne avrebbero ricavato solo seicento venti lire, con un danno di cento ottanta lire. I titolari dei depositi pubblici infine, al momento della riscossione dei «pro'», avrebbero ricevuto una somma minore di lire.

Costantini controbatte affermando che la ricchezza consiste in una maggiore o minore quantità di monete effettive, come ad esempio zecchini, ducati, filippi, e non in un maggiore o minore numero di lire. Il possessore dei cento ducati, così come i mercanti ed il titolare dei depositi pubblici non avrebbe subito alcun danno dalla regolazione perché a seguito di questo provvedimento «tutte le merci degraderanno in proporzione della moneta64 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 75.]» e la capacità di acquisto dei ducati sarebbe restata invariata.

Egli affronta a questo punto un tema di grande importanza (tanto da definirlo «il grand'obietto») e cioè gli effetti della regolazione delle monete sulle parti di una obbligazione pecuniaria. Alcuni sostenevano che la regolazione delle monete avrebbe favorito ingiustamente il creditore il quale, prima della regolazione quando il ducato valeva otto lire, aveva dato in prestito settantasette ducati e mezzo, per un valore complessivo di seicento venti lire, al momento della restituzione, con il ducato che da otto lire era sceso a sei lire e quattro soldi, il debitore avrebbe dovuto restituire cento ducati per estinguere il suo debito di seicento venti lire, con un danno di cento ottanta lire.

La sua replica si fonda sulla dimostrazione che dalla regolazione non sarebbe derivata nessuna ingiustizia; gli effetti della rivalutazione sul creditore ed sul debitore non potevano essere considerati tenendo conto di un unico rapporto pecuniario ma andavano inquadrati all'interno di una visione più ampia. I presunti vantaggi che dalla regolazione derivavano al creditore, molto spesso erano compensati dalle perdite che egli aveva subito; poteva accadere, infatti, che egli fosse titolare di «entrate d'affitti, livelli, censi, o d'altro» e che queste entrate venissero pagate con moneta alterata. Dall'altra parte il debitore che restituiva cento ducati non subiva nessun danno, in primo luogo perché «ha ricevuto li ducati settantasette e mezzo effettivi, e gli ha spesi per lire seicento vinti65 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 78.]», e se avesse voluto «restituire lire quattrocento ottanta e soldi dieci, valore di detti ducati settantasette e mezzo effettivi dopo la regolazione a lire sei e quattro, valor intrinseco66 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 78.]» avrebbe commesso un'ingiustizia; inoltre, «se non voleva risentirne danno colla regolazione, doveva fare la restituzione precedentemente67 [Ibidem.]».

La regolazione avrebbe posto fine in primo luogo all'ingiusto vantaggio che derivava al debitore dall'utilizzo «al corso abusivo di Piazza» della moneta ricevuta in prestito, ed avrebbe eliminato inoltre l'ingiustizia che subiva il titolare di «entrate d'affitti, livelli, censi, o d'altro» che venivano riscosse in moneta alterata. I privati dovevano accettare il provvedimento della regolazione, emanato allo scopo di rimuovere «qualunque ingiusto effetto, che o al debitore, o al creditore fosse stato dall'alterazione delle monete cagionato68 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 79.]».

Il problema che sorgeva, a seguito di un cambiamento del valore della moneta, tra le parti di una obbligazione pecuniaria veniva risolto utilizzando i termini che avevano caratterizzato l'analisi di Baldo degli Ubaldi; il giurista perugino aveva infatti individuato nella «æstimatio» (e nelle «utilitates» che questa avrebbe potuto conferire), ovvero nel valore legale della moneta al momento della nascita del rapporto obbligatorio, l'elemento determinate per stabilire l'entità della restituzione del denaro avuto in prestito; solo in questo modo si poteva evitare che il debitore lucrasse ingiustamente ai danni del creditore («cum aliena jactura»), in altri termini, che restituisse una quantità di denaro con la quale il creditore non può acquistare la stessa quantità di beni e servizi («utilitates»).

Per confutare la tesi di chi sosteneva che la regolazione delle monete avrebbe danneggiato sensibilmente l'erario statale (avrebbe annullato i vantaggi che derivavano dalle spese fatte in moneta di Piazza, che veniva acquistata ad un prezzo ridotto rispetto alla moneta di Banco, ed inoltre non sarebbe stato più possibile pagare le truppe con monete alterate) Costantini dimostra che i danni derivanti dall'alterazione delle monete erano di gran lunga superiori ai risparmi ipotizzati. La regolazione avrebbe favorito il «commerzio, e le arti, che formano il fonte più ubertoso degli erarj69 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 81.]», ed il pagamento delle truppe sarebbe risultato più vantaggioso se fatto con il ricorso a qualche «equivalente gravezza».

Infine, gli «opponenti» aggiungevano alle loro argomentazioni che i prezzi delle merci difficilmente si sarebbero ridotti «alla proporzione delle monete per l'arbitrio ben noto de' venditori» con l'effetto di rendere inefficace ogni regolazione. Costantini, contemporaneamente alla regolazione delle monete, suggeriva l'adozione di misure coercitive per ridurre «i prezzi delle robe alla proporzione delle monete»; tuttavia anche di fronte a resistenze da parte del venditore di abbassare i prezzi delle merci, le insistenze di un compratore accorto sarebbero riuscite ad ottenere l'effetto desiderato.

Lo scrittore veneziano per avvalorare le proprie argomentazioni allega al termine del trattato una sintesi delle scritture dei «Capi di Piazza della Città di Venezia» presentate al Senato. I mercanti70 [I mercanti desideravano l'attuazione del provvedimento di regolazione delle monete anche se esso avrebbe provocato una diminuzione dei prezzi delle merci. Bloch ha affermato che «benché a un primo sguardo ciò possa apparire paradossale, questo ribasso dei prezzi poteva essere desiderato anche dai mercanti. Infatti, quegli importatori che, per accordare il loro prezzo d'acquisto (che era prezzo-oro) con i loro prezzi di vendita (stipulati in moneta di conto), avevano dovuto, in tempi di indebolimento, alzare in modo così notevole questi ultimi - non rischiavano in fin dei conti di vedere scappare la loro clientela?» (Lineamenti di una storia monetaria europea, cit., p. 96).] chiedevano la regolazione delle monete per porre fine ai disordini monetari derivanti dalle alterazioni, disordini che provocavano l'aumento dei prezzi delle merci, la stagnazione degli affari e la conseguente diminuzione delle entrate che la Repubblica ricavava dall'esazione dei dazi.

La regolazione delle monete avrebbe finalmente ridotto «la formalità del traffico ad un metodo sicuro, ed invariabile» e favorito lo sviluppo commerciale della piazza veneziana con i conseguenti vantaggi per il pubblico erario. Gli stessi mercanti auspicavano che l'«apprezzamento» delle monete venisse ragguagliato al valore intrinseco ed alla proporzione dei metalli preziosi e che questa valutazione dovesse essere fatta a partire dallo zecchino, e «da questo formar si dovrà la proporzione alle altre monete d'oro, e ragguaglio a quelle d'argento».

Visto che la molteplicità delle monete d'argento era la causa principale degli accrescimenti delle stesse, i mercanti speravano che venisse proibito l'uso di tutte le monete forestiere e che venisse consentito l'uso di una sola moneta nazionale. Essi ricordavano infine l'esito felice che aveva avuto la regolazione del 1687; a seguito di quel provvedimento infatti aumentarono i traffici della piazza veneziana, diminuirono i prezzi delle merci e non si verificò la mancanza di numerario che anzi aumentò, quanto più aumentava il commercio.

La politica monetaria che Costantini suggerisce è il frutto della «sua straordinaria competenza in materia finanziaria e della sua conoscenza di tutto il meccanismo monetario e bancario della Repubblica di Venezia, i cui sistemi non manca spesso di additare ad esempio71 [A. Lizier, Dottrine e problemi economici ..., cit., p. 323.]»; la rivalutazione della moneta che egli auspicava era la conseguenza di considerazioni scaturite da un attento esame della secolare esperienza del governo di Venezia e della sua Zecca, la quale «ha servito di scuola alle ceche forestiere, ed ogni genere di commercio, non ha mai assentito che si alteri nella cecha che si alteri il valore intrinseco ed estrinseco delle sue monete d'oro e d'argento72 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 56.]».

5. Le conseguenze delle alterazioni monetarie sui rapporti di debito e credito

Il libro Caso di monete imprestate pubblicato nel 1753 tratta, «con molto acume e dottrina», della restituzione di un mutuo pecuniario a seguito della alterazione del valore della moneta, questione che a partire dal Basso Medio Evo aveva tormentato generazioni di studiosi e che era già stata discussa da Costantini nel suo scritto precedente; in riferimento a quanto ha scritto F. Venturi e cioè che questo libro è «un intervento sul problema del cambio e dell'usura73 [F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 509.]» va precisato che il cambio è un tema che non è affatto trattato nell'opera, mentre l'usura riguarda solo indirettamente il problema principale.

Lo schema del confronto delle opinioni contrastanti, che Costantini in parte aveva proposto attraverso gli «obietti» nelle opere precedenti, viene qui sfruttato interamente, dato che l'opera è presentata sotto forma di dialogo. La questione («caso») è espressa in questi termini: «Tizio prestò a Sempronio Zecchini 300. in ispezie; in tempo che il loro valor estrinseco, ed arbitrario della Piazza di Venezia era di L. 22. ma col progresso, prima che giungesse il tempo della restituzione si suppone che sia cresciuto il suo numerario estrinseco valore sempre arbitrario della Piazza, fino alle L. 23. Ora si domanda, in qual modo debba farsi per giustizia la restituzione74 [Girolamo Costantini, Caso di monete imprestate. Dialogo. Venezia, Giuseppe Bortoli, 1753, p. 3.]».

La diversità delle opinioni sul modo di effettuare la restituzione può essere così riassunta: alcuni pensavano che le monete andassero restituite nella «stessa ispezie», visto che l'eventuale accrescimento del loro valore era l'effetto dell'arbitro della Piazza; altri sostenevano che, se non era stato previsto esplicitamente, al posto dei zecchini si potevano restituite altre buone monete «calcolate a quello stesso estrinseco ed arbitrario valore, al quale proporzionalmente le monete nobili correvano al tempo della prestanza, non mai a quello della restituzione75 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 4.]»; infine c'era chi affermava che la restituzione dovesse essere fatta con «l'equivalente delli Zecchini 300. che rappresentavano L. 6600. in ragione di L. 22. a zecchino con qualunque altra moneta ragguagliata al valor estrinseco, ed arbitrario di questa Piazza al tempo della restituzione, non potendo Tizio pretendere niente di più di quanto aveva sborsato. Imprestò egli, dicevamo, L. 6600. ed altrettante appunto dovranno essergli restituite col Zecchino a L. 23. perchè niuno si attiene in pratica, nella comun de' Contratti, ad altro valore fuorchè all'estrinseco ed arbitrario della Piazza76 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 4.]».

Costantini, ritenendo di importanza trascurabile la prima di queste due posizioni (peraltro molto simile alla seconda), mette a confronto i sostenitori delle altre due e cioè Teotimo, il quale pensava «che il mutuario se non poteva restituire li Zecchini 300. in ispezie, perchè con tal patto non fu accordata la restituzione; dovesse almeno restituire l'equivalente sostanzial valore de' medesimi calcolati, come sottintender si deve, alle L. 22. come tali appunto correvano al tempo della prestanza per tolleranza pubblica, ma in buone monete77 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., pp. 4-5.]», e Teofilo il quale sosteneva che il «mutuario poteva restituire L. 6600. valor delli 300. Zecchini ricevuti a L. 22. l'equivalente in altre monete calcolate con l'accrescimento fino a L. 23. del Zecchino, giunto a tal grado al tempo della restituzione78 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 5.]».

Vista la difficoltà di ricostruire interamente il dialogo, esporremo dapprima le opinioni di Teofilo e successivamente quelle di Teotimo; queste ultime, oltre ad occupare uno spazio più ampio, ed ad avere il supporto di un numero maggiore di citazioni, sono le opinioni dello stesso Costantini.

Per avvalorare le proprie tesi Teofilo ricorreva alla autorità di un teologo francese, Paolo Gabriele Antoine, che nella sua opera79 [Teologia morale universale, Venezia, 1749.] pubblicata nel 1749, occupandosi del contratto di mutuo, aveva trattato il problema della restituzione di una somma di denaro; a tal proposito il Teologo aveva affermato: «Seclusa speciali conventione justa, non potest exigi pecunia eadem in specie physica, sed solum eadem in valore, quem habuit tempore mutui, sive interim valor monetæ auctus fuerit, sive imminutibus, saltem si tempore mutui hæc mutatio non fuit prævisa, nec spectata. Ita communiter Theologi, teste de Lugo80 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 6.]».

Il criterio che, secondo Teofilo, bisognava seguire nella restituzione della somma avuta in prestito era il riferimento al valore estrinseco di detta somma e cioè il riferimento al numero delle lire, indipendentemente dal valore assunto dalle monete reali al momento dell'adempimento dell'obbligazione.

Nel caso di mutuo di cose, come il frumento, queste dovevano essere restituite nella stessa specie fisica e nella stessa quantità sia che il loro prezzo diminuisse, sia che aumentasse; il contrario però accadeva nella restituzione di una somma di monete, in esse si considerava esclusivamente «l'uguaglianza del valore, non la sostanza81 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 11.]». Questo perché egli presupponeva che il valore dei metalli preziosi di cui sono composte le monete venisse stabilito dalla legge che assegnava alle monete un valore determinato.

Il valore delle monete cambiava inoltre non solo ogni volta che il principe ricorreva ad un «alzamento», ma anche quando il valore della moneta aumentava a causa dell'«arbitrio della Piazza», come era accaduto per lo zecchino veneto; in questo caso il governo della Serenissima «se non esplicitamente», lo aveva approvato «almeno virtualmente82 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 49.]».

Molto più articolate e complete erano le argomentazioni utilizzate da Teotimo per confutare le teorie di Teofilo. Egli affermava innanzitutto che, se non fosse stato stabilito con la stessa «spezie fisica» di moneta, il pagamento sarebbe dovuto avvenire in «altre buone e permesse monete nobili, calcolando in esse quel valor estrinseco tollerato che la moneta aveva al tempo della prestanza, tanto nel caso che nel tempo di mezzo fosse cresciuto, quanto nel caso che fosse diminuito supposto sempre, che l'alterazione non sia derivata da legge del Sovrano83 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 6.]», in quest'ultimo caso si sarebbero dovute accettare le conseguenze della mutazione monetaria.

Secondo Costantini era necessario distinguere la moneta reale dalla moneta ideale; il valore «intrinseco e giusto» dal valore «estrinseco, ideale, non giusto, proveniente dall'abuso per arbitrio della Piazza84 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 10.]»; era quindi del valore «intrinseco e giusto» che si doveva tener conto al momento della restituzione della moneta.

In questo scritto, per dare un valore maggiore alle proprie tesi e contrariamente a quanto aveva fatto nel trattato precedente, Costantini utilizza, come vedremo, numerose citazioni, e proprio a proposito della variazione del valore «numerario» della moneta (termine che egli definisce «equivoco»), cita «il dotto Avvocato Fabbrini», il quale nel suo trattato Dell'indole e delle qualità naturali della moneta aveva affermato che questa variazione era il fattore al quale poteva essere imputata una perdita tra le parti di una obbligazione pecuniaria.

Il danno patrimoniale, quasi sempre a detrimento del creditore, non era in alcun modo compatibile con la fattispecie di «gratuito imprestito» esaminata in quest'opera; il contratto di mutuo prevedeva infatti che «dopo trasferite le cose in dominio di chi le riceve, siano restituite dello stesso genere, quantità, o qualità equivalente nella sostanza85 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 12.]».

Lo scrittore veneziano riteneva di fondamentale importanza equiparare la moneta alle altre cose fungibili, citando quanto aveva scritto lo stesso Fabbrini a questo proposito, e cioè che «la podestà di surrogazione della moneta alla moneta, o sia di surrogazione della moneta nello stato naturale originario, è l'intrinseco; onde la funzione, o sia l'equivalenza d'una moneta per l'altra, procede secondo l'uguaglianza dell'intrinseco, come nelle altre spezie, o merci86 [Giovannantonio Fabbrini, Dell'indole ..., cit., p. 40.]».

Da queste prime battute traspare che la fattispecie esaminata in queste pagine è completamente diversa da quella esaminata nello scritto precedente; in Delle monete in senso pratico e morale aveva infatti asserito che nel caso di restituzione di una somma di denaro, avuta in prestito prima della «regolazione delle monete» (un provvedimento che rivalutava la somma avuta in prestito), si dovesse tener conto del numero delle lire date in prestito per evitare che il debitore si avvantaggiasse ingiustamente dall'utilizzo di questa somma.

Anche l'approccio al problema è differente; Costantini, dopo un attento esame della letteratura monetaria, abbraccia posizioni che potremmo definire "metallistiche", le quali, oltre ad essere confortate dalle opere di illustri scrittori come Davanzati, Montanari e Locke, coincidevano con quelle dei suoi contemporanei, ai quali egli fa continuamente riferimento.

Insieme alla necessità di assegnare alle monete un valore che corrispondesse al «sostanzial valore del puro metallo, di cui sono formate le monete, unitovi l'estrinseco ideale, ma giusto, composto delle spese del Monetajo, e del diritto di Signoraggio87 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 24.]», riteneva fondamentale che tale valore non venisse alterato dall'«arbitrio della Piazza», con il quale si assegnava alle monete stesse un valore «estrinseco ideale».

A tale riguardo bisogna sottolineare come lo scrittore veneziano condanni sia le alterazioni che avvenivano a causa dell'«arbitrio della Piazza», quelle cioè provocate dagli speculatori, che quelle operate per mezzo della legge dal sovrano, al quale però «deve ognuno ubbidire; giovi, o non giovi la variazione88 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 27.]»; l'atteggiamento verso i due fenomeni era tuttavia diverso; egli infatti affronta solo incidentalmente il fenomeno delle variazioni monetarie operate dai sovrani, dedicandogli uno spazio marginale. Ciò può essere spiegato dalla fiducia da lui riposta nell'operato del governo della Repubblica di Venezia che, al contrario di quanto nei secoli avevano fatto tutti gli altri sovrani, rarissime volte fece ricorso al mezzo monetario per sopperire ai bisogni dell'erario, cercando sempre di mantenere immutato il valore e la bontà delle proprie monete.

Le idee di coloro che, a partire dal pensiero di Aristotele, ritenevano che il valore delle monete derivasse esclusivamente dalla autorità del principe venivano fermamente condannate. Il nominalismo monetario (in questo modo egli interpretava il pensiero del filosofo stagirita) veniva rifiutato a favore di un rigido metallismo. Per convalidare la sua scelta metallista Costantini si avvale della teoria del valore di Galiani, il quale aveva affermato che l'oro e l'argento «hanno, come tutte le cose, il loro valor intrinseco, come Metalli, disgiuntivamente dall'esser con essi formata la Moneta89 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 38.]». Era necessario quindi che il valore della moneta coincidesse «essenzialmente» con quello del metallo e che non si tenesse conto della «Valuta» la quale era il risultato dell'arbitrio del sovrano o della Piazza.

Molto interessante è il giudizio espresso da Costantini sull'opera di Ferdinando Galiani; il Della Moneta, anche se conteneva qualche parte che egli non poteva «approvare per verun conto» non meritava la «comune disapprovazione».

In particolare egli non condivideva quanto Galiani aveva scritto a proposito dell'alzamento per le medesime «ragioni che spezialmente addussero contra il Sig. Melon, seguito e difeso da questo Abate Napolitano, il signor Abate di S. Pierre, il Sig. Du Tot, ed altri valentuomini Oltramontani, ed italiani». Le teorie sull'alzamento delle monete, anche se non avevano certamente validità universale, potevano al limite essere accettate se applicate alla particolare situazione del regno di Napoli.

Tornando all'argomento centrale egli ribadiva l'esigenza di equiparare la moneta alle altre cose fungibili; e, così come avevano fatto numerosi giuristi che a partire dal Medio Evo si erano occupati della questione, portava a sostegno della propria soluzione la legge «Cum quid». Il debitore, se non poteva restituire monete della stessa specie (nel nostro caso zecchini) perché non era stato espressamente previsto, avrebbe dovuto restituire la stessa «quantità materiale di monete reali proporzionata alli Zecchini ricevuti», in caso contrario «non vi sarebbe ugguaglianza nella restituzione, in cui vi fosse diminuzione della quantità sostanziale ricevuta90 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 45.]».

Inoltre, dato che «l'alzamento del valor numerario» provocava sempre l'accrescimento in proporzione del «valore di tutte le cose», la restituzione delle stesse monete avute in prestito (o in sostituzione di monete con un valore equivalente) avrebbe permesso al creditore di avere a disposizione una somma con lo stesso potere d'acquisto di quella data in prestito (fermo restando il valore del metallo in questione rispetto alle altre merci), mentre il contrario sarebbe accaduto se il debitore avesse restituito una quantità inferiore di moneta «reale» rispetto a quella avuta in prestito, con un danno evidente per il creditore.

Costantini riteneva esemplare la condotta del governo veneziano durante la prima metà del secolo XVIII; quel Governo che, anche se «pensò di cogliere esso pure il benefizio che traevano i Commessarj delle truppe estere, e comandò che fino alla regolazion delle monete fossero pagate le sue Milizie, Navi, salariati, serventi, e Partitanti, in moneta coll'accrescimento numerario91 [Girolamo Costantini, Caso di monete ..., cit., p. 49.]», nei rapporti di debito e di credito, come ad esempio il pagamento degli interessi dei titoli del debito pubblico oppure la restituzione dei depositi dei banchi pubblici, prese decisioni sempre favorevoli al creditore «non ostante qualunque accrescimento numerario» ed ordinò che tali pagamenti fossero eseguiti «in moneta valutata al giusto valor», determinato in base all'ultima regolazione delle monete, avvenuta nel 1687.

Infine, la posizione del teologo francese, il quale sosteneva che la restituzione della moneta avuta in prestito dovesse avvenire in base al valore estrinseco e non all'entità fisica della moneta, scaturiva dal riferimento costante alle leggi ed alle consuetudini del Paese in cui viveva, favorevoli all'alzamento delle monete. La soluzione ipotizzata dall'Antoine, tuttavia, non poteva avere validità universale; a maggior ragione quindi non poteva avere validità nella Repubblica di Venezia dove, le leggi non avevano mai permesso l'alzamento numerario delle monete, anche se qualche volta l'avevano tollerato.

6. L'introduzione alle opere di Melon e Dutot ed il giudizio sul "Sistema" di Law

L'interesse per le questioni monetarie spinse nel 1754 lo scrittore veneziano a dare alle stampe la traduzione delle opere degli scrittori francesi uscite negli anni precedenti su quello stesso argomento. Delle monete, controversia agitata ...92 [Il titolo completo è: Delle Monete, controversia agitata tra due Celebri Scrittori Oltramontani, i Signori Melon e Dutot. Si è aggiunto in fine un Opuscolo sulla stessa materia del signor abate de Saint-Pierre, versione dall'idioma franzese, in Venezia, appresso Antonio Zatta, 1754.] è infatti la versione italiana delle opere di Melon93 [Jean Francois Melon, Essai Politique sur le commerce, Rouen, 1734, publié par E. Daire, Économistes financiers du dix-huitième siècle, Paris, chez Guillaumin libraire, 1843.], Dutot94 [Dutot, Réflexion politiques sur le finances et le commerce, La Haye, 1738; édition intégrale publiée pour la première fois par P. Harsin. Paris, Libraire E. Droz, 1935.] e di un breve scritto dell'abate di Saint-Pierre95 [Charles-Irénée Castel, abbé de Saint-Pierre, Discours contre l'augmentation des monnoyes, & en faveur des Annuitez, in Ouvrages de politique et de morale, in 16 tomi, Rotterdam, Beman, 1733-1741, II, pp. 199-230.] sugli effetti delle mutazioni monetarie, preceduta da una breve ma interessante introduzione dello stesso Costantini.

Le opere che si occupavano di pubblica economia erano secondo il Nostro Autore «certamente di gran lunga superiori a tutte quelle che in altro genere di studio può mai produrre l'umano ingegno96 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. i]» perché miravano ad accrescere la «felicità dei Popoli». La sua pubblicazione avrebbe permesso a tutti di conoscere il pensiero di scrittori tanto autorevoli, che avevano trattato una materia così «importante» come quella delle monete; egli si proponeva così di seguire l'esempio dato dai «due dotti» fiorentini Giovanni Francesco Pagnini e Angelo Tavanti i quali anni prima avevano pubblicato la traduzione italiana delle opere monetarie di John Locke97 [Ragionamenti sopra la moneta, l'interesse del danaro, le finanze e il commercio, scritti e pubblicati in diverse occasioni dal Signor Giovanni Locke, tradotti la prima volta dall'inglese con varie annotazioni, Firenze, Andrea Bonducci, 1751].

In questa introduzione Costantini ricostruisce il dibattito svoltosi in Francia a partire dalla pubblicazione del Saggio politico sopra il commerzio; egli sottolinea come quest'opera, pur contenendo «molte riflessioni assai giudiziose», ricevette numerose critiche per l'opinione espressa «sull'alzamento delle Monete». Questa teoria costruita sulla base di «falsi raziocinj» aveva provocato la reazione di un altro scrittore francese, Dutot che scrisse le Riflessioni politiche sopra l'erario e il commerzio.

Scrittore, quest'ultimo, particolarmente apprezzato perché le teorie da lui formulate per «combattere il sentimento del Signor Melon, relativamente alla variazione delle monete», avrebbero indotto a cambiare opinione su quel particolare argomento chi, come Galiani era stato fino ad allora «seguace della opinione del Signor Melon». Per il Nostro Autore era infine confortevole constatare che le proprie tesi, oltre ad essere, per alcuni aspetti simili a quelle di Dutot, erano anche molto vicine a quelle dell'«illustre Abate de Saint-Pierre», il quale aveva trattato l'argomento in modo «assai succinto, ma pien di sugo».

Costantini segnala a questo punto l'esistenza di una quarta opera dedicata ai temi monetari, alla quale vengono dedicate la maggior parte delle pagine dell'introduzione. Questo trattato, intitolato Esame del libro intitolato Riflessioni politiche sopra l'erario e il commerzio98 [Examen du livre intitulé Reflexions politiques sur le finances et le commerce, La Haye, 1740.], che venne pubblicato anonimamente nel 1740 dal finanziere Joseph Paris, detto Duverney insieme al suo collaboratore François Deschamps, è il risultato degli sforzi compiuti per mettere in discredito le teorie monetarie di John Law, elogiate nello scritto di Dutot.

Nelle Riflessioni politiche sopra le finanze e il commercio veniva difeso strenuamente l'operato del finanziere scozzese, al punto di fare di quest'opera una apologia del "Sistema"; questa difesa scaturiva, oltre che da convinzioni personali, dall'incarico dello stesso Dutot che molto probabilmente fu uno dei cassieri della Compagnia delle Indie. Paris Duverney, da parte sua, oltre a ricoprire importanti cariche all'interno della amministrazione finanziaria dell'antico regime durante il primo quarto del XVIII secolo, venne considerato un nemico mortale di Law, ed alla sua caduta fu incaricato dal Reggente di liquidare il "Sistema".

Il giudizio di Costantini sulla polemica99 [A questo proposito vedi: P. Harsin, Introduction a Dutot: Réflexion politiques sur les finances et le commerce. Édition intégrale publiée pour la première fois par Paul Harsin. Paris, Libraire E. Droz, 1935 e del medesimo autore Les doctrines monétaires et financières en France du XVI au XVIII siècle. Paris, Alcan, 1928.] tra Dutot e Duverney, che egli cerca di ricostruire nei punti più importanti, è chiaro sin dalle prime battute; egli non comprendeva infatti come mai Dutot avesse «potuto dare sì grandi elogj al sistema del Signor Lavv, che null'altro fu salvochè un bizzarro giuoco di aumenti e di diminuzioni nella Spezie, e che fondato era soltanto sulla pretesa indifferenza del valore delle Monete100 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. x.]».

L'emissione di biglietti in misura uguale all'argento monetato esistente nel regno viene definita «una pessima operazione»; essa avrebbe avuto il solo effetto di provocare il raddoppio della massa monetaria o del suo valore e quindi l'«incarire del doppio le derrate, le merci e le manifatture101 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xiij.]». Il credito pubblico, afferma Costantini, risultava vantaggioso solo «in alcuni casi», e cioè quando si «apponessero grandi cautele, onde renderlo sodo e preservarlo dagli abusi102 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xiij.]».

Le idee che Costantini aveva sul "Sistema" coincidono sempre, molto spesso fino a confondersi, con quelle di Duverney, il quale aveva avuto il merito di mostrare che «tutte le parti del Sistema del Signor Lavv erano malamente composte, e che tutto l'edifizio doveva da se stesso crollare103 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xiv.]»; il suo giudizio sul Sistema di Law non poteva non essere un giudizio di dura condanna come lo era stato il libro di Duverney, un'opera, egli affermava, «scritta con tanta precisione e chiarezza, quanta è la forza e la eleganza dello stile con cui ella è distesa104 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xxiv.]».

L'esposizione fatta da Dutot sugli effetti dell'aumento della circolazione altro non era che «una pomposa mostra» e le operazioni come quella che assegnava alla Compagnia delle Indie l'appalto della riscossione di tutte le rendite dello Stato, encomiate da Dutot, vengono definite «bizzarre». I provvedimenti del finanziere scozzese, presi per «avvezzare il Pubblico all'uso dei biglietti, e per impedire che non si facessero ammassamenti d'oro considerabili105 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xix.]» erano il risultato di «una perpetua istabilità» di condotta; il giudizio favorevole di Dutot, afferma Costantini, assomigliava all'«elogio della peste».

Egli difende, così come l'autore dell'Esame del libro intitolato Riflessioni politiche sopra l'erario e il commerzio, i tentativi compiuti, forse dallo stesso Duverney, successivamente alla caduta di Law per ritornare alla normalità. Per questo il Certificato del 1721 viene definito «una vasta impresa regolata con molta saviezza e rettitudine, ch'ebbe un esito felice nel rimettere, per quanto era possibile, l'ordine negli affari Pubblici e privati, e nel dare alla Compagnia delle Indie la forma vantaggiosa che ha ai nostri dì106 [Girolamo Costantini, Delle Monete, controversia ..., cit., Introduzione, p. xxj]».

7. Piergiovanni Cappello

Girolamo Costantini nel suo libro Caso di monete imprestate, aveva varie volte fatto riferimento all'opera di un «dotto Autore Veneziano», pubblicata nel 1752 ed intitolata Nuovo trattato del modo di regolare la moneta107 [In Venezia, appresso Lorenzo Baseggio, 1752.]. L'autore di quest'opera, molto lodato anche dal marchese Belloni108 [Il Nuovo trattato del modo di regolare la moneta, viene citato sia nella prefazione della traduzione francese, che nella riedizione italiana del 1757 del Trattato sopra il commercio; in quest'ultima il marchese romano lo definisce «uno scritto di straordinaria applicazione e penetrazione» (A. Lizier, Dottrine e problemi economici ..., cit., p. 324; F. Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 456).], era il patrizio veneziano Piergiovanni Cappello (1681-1754).

Come Costantini, Capello dedicò gran parte della sua vita al servizio dell'amministrazione della Repubblica di Venezia, senza però mai raggiungere posizioni di rilievo; la sua carriera politica non fu infatti molto attiva né particolarmente brillante. Le cariche da lui ricoperte furono di importanza secondaria, la maggior parte nelle magistrature che si occupavano di questioni economico-finanziarie, dato che fin da giovane mostrò un vivo interesse per questo tipo di studi.

In particolare, la sua straordinaria competenza in materia di monete gli garantì una assidua presenza negli uffici preposti a questo tipo di affari: nel 1733 venne eletto deputato straordinario alla materia delle monete («una magistratura istituita, senza dubbio anche per suo stimolo109 [Paolo Preto, Piergiovanni Cappello in Dizionario Biografico degli Italiani, sub voce (p. 812), vol. 18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975.]»), tre anni dopo divenne uno dei tre revisori e regolatori delle Entrate pubbliche, una importante magistratura che controllava la riscossione dei dazi ed infine dal 1748 fu eletto tra i tre Deputati alla provvisione del denaro pubblico110 [A questo proposito vedi Bilanci Generali ..., cit., pp. 520, 522, 542.], magistratura, come abbiamo visto, tra le più importanti nella gestione finanziaria della Repubblica, dalla quale dipendeva anche il ragionato Costantini.

L'attività di funzionario si accompagnò anche in questo caso ad un incessante impegno negli studi sui problemi monetari ed economici. Oltre al Nuovo trattato del modo di regolare la moneta, Cappello scrisse altre due opere rimaste inedite: 1) la Regolazione delle monete venete, in cui vengono descritti i problemi generati dal disordine monetario esistente nei territori della repubblica veneta nella prima metà del Settecento; 2) i Principii ovvero massime regolatrici di commercio raccolte da documenti degl'autori antichi e moderni fondate su la pratica de popoli e nazioni più studiose di commerzio; quest'ultimo è un «ampio trattato sull'origine, sviluppo e metodi di conservazione ed ampliamento del commercio111 [P. Preto, in Dizionario ..., cit., p. 813.]».

Le pagine introduttive del Nuovo trattato, oltre ad avvertire che il fine principale dell'opera è quello di fornire indicazioni utili alla regolazione delle monete in Venezia, contengono i primi elementi utili a stabilire la data di stesura della stessa, che può essere fissata tra il 1727 e il 1731.

I motivi che indussero l'autore a pubblicarla soltanto vent'anni dopo non sono noti; tuttavia è lecito ipotizzare che l'autore si decise a darla alle stampe dopo aver constatato che l'inveterato disordine monetario aveva assunto caratteri ormai preoccupanti per i problemi che esso provocava, attirando così l'attenzione di molti studiosi. La pubblicazione immediatamente dopo la stesura avrebbe forse contribuito a dare a quest'opera una fortuna maggiore, visto che nel 1752 la maggior parte dei temi in essa trattati erano di dominio comune.

8. La natura della moneta

Il trattato si apre con una affermazione molto importante per comprendere le posizioni assunte dall'autore; egli asserisce, infatti, che «la Moneta istituita a solo comodo de' Contratti è inviolabile, e sacra, se è disordinata apporta gravissimi danni, ed è difficilissima a riordinarsi, e regolarsi112 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato del modo di regolare la moneta, Venezia, Baseggio, 1752, p. 1.]». I metalli preziosi con cui venivano coniate le monete avevano due qualità: la prima, quella principale, era la loro capacità di servire «al comodo, ed ornamento della vita umana», mentre la seconda, definita accessoria, è «quell'essere la comune misura, e prezzo per commutare, ed ottenere ogn'altra cosa».

I sovrani, accortisi che non tutti gli uomini avevano una perfetta conoscenza dei metalli, decisero, per facilitare gli scambi ed evitare che i più sprovveduti fossero ingannati, di istituire le monete, assegnando loro un valore conforme al metallo con il quale venivano coniate. Questo stato di cose non durò però a lungo.

La prima alterazione delle monete viene infatti attribuita ai Romani i quali, durante la prima guerra punica, cessarono di coniare monete «pareggianti al peso»; nacque così per la prima volta l'«Ideale nella Moneta, che diè poi alla luce tanti mostri, quant'immagginazioni, ora sono sostituite all'Oro, ed all'Argento113 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 3.]»; lo stesso popolo, non contento di questo triste primato, utilizzò pure un altro «stratagemma»: quello cioè di mescolare all'oro l'argento ed all'argento il rame, pratica che fu poi utilizzata fino all'eccesso dai sovrani, accortisi che potevano «pagare i loro debiti per metà e così i loro stipendiati».

Il risultato di queste pratiche fu un disordine monetario che spesso assunse dimensioni incontrollabili; situazione che l'autore descrive in modo molto persuasivo, egli immagina infatti di trovarsi nel «gran Mare delle Monete, quali uscendo dallo stesso fonte dovrebbono portare l'istessa purità, e limpidezza; e pure sgorgano per esse acque così impure, e mortifere, che esseccano le sostanze di molti; e ciocchè più importa, avvelenano le coscienze di quelli, che con tali mezzi profittano appoggiati sù l'ignoranza, e povertà dei sudditi, e del prossimo114 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 2.]».

9. Le conseguenze delle alterazioni monetarie

Il giudizio delle alterazioni monetarie, definite procedure di «secreta rapina115 [Il patrizio veneziano non è né il primo né sarà l'ultimo a giudicare in questo modo le violazioni delle regole di sana politica monetaria: agli inizi del Trecento, come abbiamo visto, il giureconsulto Andrea d'Isernia si era scagliato contro il peccato dei princìpi i quali «[...] monetam minus legitimam faciendo fieri et tenentur sicut de rapina [...]»; allo stesso modo Keynes giudicava l'inflazione del XX secolo, definita «un potente strumento di estorsione governativa» (La riforma monetaria, trad. ital. di P. Sraffa, Milano, Treves, 1925, p. 65) attraverso la quale «i governi possono confiscare segretamente ed inavvertitamente una gran parte della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo, essi non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente» (Le conseguenze economiche della pace, trad. ital. Milano, Treves, 1920, pp. 215-216).]» che avevano l'effetto di togliere ai creditori parte dei loro crediti, agli stipendiati parte delle loro paghe ed a tutti i sudditi parte dei loro beni, è di dura condanna. Anch'egli, come molti dei suoi contemporanei afferma che ad esse andrebbe preferito lo strumento delle imposte, in modo tale che «su pochi cadrebbe il flagello, ò proporzionatamente su tutti, riuscirebbe meno penoso, ma non s'aprirebbe la via alle conseguenze luttuose, che derivano dalla depravazione, ed alzamento delle Monete116 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 5.]».

La conseguenza più importante delle alterazioni monetarie era lo scompenso di «tutti i patti, e con questi tutte le obbligazioni»; essa, afferma lo scrittore veneziano, provocava gli stessi effetti di una mutazione delle «Misure» e delle «bilancie». Da una parte si verificava una sopravvalutazione arbitraria delle monete nobili, mentre dall'altra si assisteva allo svilimento delle «piccole Monete» con un danno inevitabile per coloro che normalmente possedevano e percepivano queste monete e cioè per i più poveri, la situazione dei quali degenerava fino alla «più deplorabile mendicità». Inoltre le controversie che nascevano a seguito di una alterazione delle monete costituivano una così «grande disgrazia» che da sole sarebbero state sufficienti a scongiurare ogni operazione di questo tipo.

Il progetto di riforma ipotizzato dal Nostro Autore per risolvere i problemi cagionati dal disordine monetario che attanagliava lo Stato veneto, alla pari di tutti gli altri stati italiani, non prevedeva un coinvolgimento di tutte le zecche presenti sul territorio italiano. Egli molto realisticamente afferma che «sarebbe pazzia» ipotizzare una situazione nella quale il prezzo delle monete venisse fissato in base al metallo contenuto, i prìncipi fossero privati del loro diritto di stabilire il valore delle monete, e venisse abolito l'uso degli aggi.

Le soluzioni alle questioni monetarie esaminate nel Trattato di Cappello sono di portata essenzialmente pratica; così come aveva fatto Costantini, egli si limita ad esaminare i problemi da un punto di vista veneziano; le sue soluzioni, riferite esclusivamente ai problemi di Venezia, nascono da una conoscenza diretta ed approfondita della realtà economica, accumulata durante il servizio prestato al vertice della amministrazione finanziaria della Repubblica.

La maggior parte dei disordini monetari nascevano dalla cosiddetta «sproporzione delle Monete» che si verificava quando i metalli preziosi valevano più in una moneta che nell'altra dello stesso metallo, sia perché l'autorità assegnava loro un valore che non corrispondeva al valore del metallo in esse contenuto, sia a causa della diversa bontà del metallo utilizzato nel conio.

In quest'ultimo caso i mercanti più accorti erano pronti ad approfittare della situazione, sostituendo le monete «più fine» con le più «impure», con l'effetto di aggravare la situazione. Inoltre, i medesimi effetti negativi potevano venire provocati anche da una diversa valutazione delle monete d'oro rispetto a quelle d'argento; in modo tale che le monete del metallo più apprezzato sarebbero entrate nello stato in cambio delle monete del metallo meno apprezzato che in breve tempo sarebbe sparito dalla circolazione.

Un primo rimedio per ovviare a questi gravi inconvenienti, afferma lo scrittore veneziano, sarebbe stato quello di «bandir per sempre tutte le Monete Forestiere», le quali erano la causa principale delle sproporzioni esistenti; il governo veneziano, così come aveva fatto molte volte a partire dal 1593 doveva innanzitutto decretare il bando di tutte le monete straniere che circolavano nel suo territorio.

Questo provvedimento sarebbe stato il primo passo verso l'adozione di una sola moneta nazionale, pratica introdotta la prima volta dai romani, e che nel Settecento era diffusa nei grandi stati nazionali, come Francia, Spagna, Inghilterra e Portogallo. Le zecche di questi Paesi ricevevano le monete forestiere per convertirle in quelle nazionali ed evitavano in questo modo che lo stato restasse sprovvisto di moneta.

L'uso delle monete forestiere poteva, al limite, essere permesso, ma il loro corso, doveva essere stabilito in modo tale che «ciascheduna di esse vaglia solamente quel tanto, che comporta il fino in essa, che è quanto dire vaglia niente più di quanto pagarebbe la Zecca quel metallo comprandolo in verga, perché non è giusto, nè conveniente computar all'Estere il valore del Conio, che solamente dobbiamo reputare alle nostre117 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 18.]».

Solo in questo modo il governo avrebbe ottenuto i medesimi risultati che aveva il divieto di tutte le monete forestiere e sarebbe riuscito a «mettere, e mantenere in proporzione la Moneta», a trovare ed a mantenere cioè i giusti rapporti di valore tra le monete d'oro e quelle d'argento necessarie alla stabilità del sistema monetario. Lo scrittore veneziano, pur avendo cognizione che questa proporzione non era «mai stata meno dell'uno al dieci, nè maggiore dell'uno al quindici», era consapevole della estrema difficoltà di stabilire per ciascuna piazza una proporzione "ottima"; infatti, afferma che su questo punto infatti, «o sono varie le opinioni de' Scrittori, o variarono le dette proporzioni».

Per ristabilire la giusta proporzione tra le monete era indispensabile operare una riduzione «dall'alzamento in cui fossero poste dall'uso oltre al legale»; a tale riduzione dovevano essere sottoposte esclusivamente le monete nobili, visto che per la moneta «minuta ad uso de' bassi traffici» bisognava solo controllare che «non manchi, o non sovrabbondi al bisogno». Egli, dopo aver constatato come il valore dello zecchino fosse aumentato di ben sette volte dal momento della prima coniazione (da 3 lire e 2 soldi a 22 lire) e come il mondo fosse più «assuefatto» a tollerare gli alzamenti che le riduzioni, si domandava in quale misura dovesse avvenire questa riduzione.

10. La teoria del valore e della moneta

La soluzione del problema della proporzione tra le monete non poteva però prescindere da una analisi delle parti che costituivano la moneta stessa, analisi da condurre con il massimo scrupolo, ricorrendo anche a sottili precisazioni. Le monete avevano una «materia intrinseca» che andava distinta dal «prezzo intrinseco», quest'ultimo non andava confuso con il «prezzo estrinseco».

Il patrizio veneziano riteneva molto importante la prima distinzione che gli scrittori del passato non avevano saputo cogliere, ma riteneva altrettanto essenziali alcune precisazioni sul significato della parola prezzo. Per meglio spiegare il significato delle parole in questione e fondare su basi più solide la propria teoria monetaria, in queste pagine vengono presentati alcuni importantissimi ragguagli sul valore delle cose.

Egli sostiene innanzitutto che l'«interna affezione, che ci fa desiderare, ovvero rifiutare ogni cosa, nasca per le qualità della cosa medesima, o per le nostre occorrenze, è la cagione principale dell'estimazione, e del disprezzo. Quant'è più acceso l'affetto nostro, o per il maggior numero delle prerogative, o per il nostro maggior bisogno, tanto più chiamiamo preziosa qualunque cosa, e diciamo essere in prezzo118 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 28.]». Questi concetti riecheggiano quelli espressi da Montanari il quale, contrariamente all'opinione della maggior parte degli storici, fu il primo a formulare in modo soddisfacente la teoria del valore.

La spiegazione di tale teoria veniva sviluppata con il chiaro utilizzo dei termini di "rarità" e di "utilità" attraverso i quali era possibile risolvere il cosiddetto "paradosso del valore". La sabbia valeva poco perché poco utilizzata e molto abbondante. Il valore dei grani e dei vini invece, così come ogni altro commestibile, era molto alto perché necessari alla nostra «preservazione»; il loro valore sarebbe potuto tuttavia aumentare ulteriormente a seguito di una penuria ed a causa della «nostra continua occorrenza». Queste argomentazioni dimostrano come nel XVIII secolo gli scrittori di cose economiche avessero ben chiari in mente concetti come questi, formulati con sufficente chiarezza a partire dal Trecento119 [A questo proposito vale la pene ripetere ancora una volta quanto ha affermato Schumpeter, e cioè che gli «Italiani, da Davanzati in poi, furono i primi a rendersi conto esplicitamente come il paradosso del valore - il paradosso, cioè, che molte cose utilissime, come l'acqua, hanno un valore di scambio basso o nullo, mentre cose meno utili, come i diamanti, l'hanno elevato - possa esser risolto e che esso non sbarra la via a una teoria del valore di scambio fondata sul valore d'uso», e che «nel secolo e mezzo dopo Davanzati si potrebbe compilare un lungo elenco di scrittori [Cappello compreso] che avevano assai ben compreso in qual modo l'utilità entri nel processo della formazione dei prezzi». Va comunque rilevato che il giudizio espresso dall'autorevole storico a proposito della teoria del valore galianea, le cui «costruzioni concettuali accuratamente definite, in un grado tale, che tutte le polemiche - e gli equivoci - dell'Ottocento sull'argomento sarebbero divenute superflue se coloro che parteciparono a quelle polemiche avessero prima di tutto studiato il suo libro», può benissimo ritenersi valido per coloro che formularono «costruzioni concettuali» molto simili a quelle di Galiani. Infatti, per gli scrittori italiani di cose economiche del XVIII secolo, l'utilità e la rarità, erano - per usare una espressione cara allo stesso Schumpeter, «cosa di ordinaria amministrazione» (Storia dell'analisi ..., cit., pp. 365, 366, 1291).].

Gli uomini però non mirano soltanto a soddisfare i bisogni elementari; noi rincorriamo anche le «cose lontane, apparenti, e che di raro abbiamo», accade perciò che «ciò, che meno di virtù hà in se, ò meno da gl'altri viene stimato, diamo noi valore, e prezzo». È il caso del diamante e del vetro; il primo stimatissimo in Europa e non in India, dove al contrario veniva stimato meno del secondo.

L'oro e gli altri metalli preziosi erano tra tutte le «Materialità» i più preziosi perché erano da tutti desiderati, avevano quindi un valore ovunque riconosciuto. Una volta destinati agli usi monetari, i sovrani, per facilitare la stima di questi metalli, introdussero l'uso di dichiarare per mezzo di segni la quantità e la bontà degli stessi.

Esistevano tuttavia alcune monete che ricevettero «per una qualche prerogativa particolare» una valutazione maggiore delle altre, benché fossero coniate con metallo delle stessa quantità e qualità; era il caso dello zecchino veneziano che, rispetto all'ongaro ed alla doppia, riceveva un prezzo intrinseco maggiore dovuto molto spesso ad «un affetto disordinato, e senza ragione».

L'esposizione di questa teoria prosegue con una importante precisazione sul «prezzo di ogni cosa» che può essere «immaginario» oppure «Materiale». Il prezzo «immaginario» è quello che si forma in base a valutazioni del tutto soggettive; valutate con questo metodo «sono preziose le cose quant'ognuno le stima». Il «prezzo Materiale» invece è quel prezzo il quale deriva «dall'essenza di ogni cosa»; nel caso delle monete esso consiste nel metallo con il quale sono coniate, nella quantità, nella bontà e nella impronta che il metallo riceve.

Le monete ricevevano inoltre una valutazione anche in base al «prezzo estrinseco», diverso sia dal materiale che dall'immaginario. A complicare il quadro offerto dalle diverse definizioni di «prezzo estrinseco» contribuisce molto lo stile utilizzato dall'autore, che non aiuta proprio a fare chiarezza. Tale prezzo viene definito rispettivamente come «una misura immaginata per proporzionare nelle vendite, e compre le materialità comparative in quanto però siano apprezzabili», «il segno, per cui si esprime il maggiore, o minore desiderio, che abbiamo di ricevere, ovvero di dare altrui le materialità medesime» ed infine «la regola per conoscere, e tenere registro in scrittura delle vendite, e compre fatte in quanto all'analogia de' prezzi120 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 32.]».

Ma in riferimento alla moneta, il prezzo estrinseco era assimilabile a quello che i giuristi definivano «valor impositus» perché era appunto un valore apposto dal sovrano affinché servisse di regola «per misurare, e proporzionare il prezzo materiale, e l'ideale».

La questione della differenza tra il valore intrinseco e quello estrinseco era una molto dibattuta tra i giuristi, la maggior parte dei quali, sottolinea Cappello, era concorde nel ritenere che «la sostanza reale del proprio metallo sia l'intrinseco, e la valuta, ch'è un accidente sia l'estrinseco121 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 33.]».

L'avversione dell'autore per il prezzo estrinseco assegnato alle monete, che egli identifica con la valuta, è riscontrabile in molti passi del Trattato; l'oro e l'argento, al contrario della valuta, sostituendosi ai beni scambiati, rendevano la moneta materiale la più importante, essendo la seconda «un'immaginazione, un numero, ed un segno per conoscere, ed esprimere il prezzo intrinseco, ed immaginario d'ogni cosa».

La ricostruzione della nascita della «valuta immaginaria» è molto simile a quella che si trova nelle Osservazioni di Pompeo Neri e nel Trattato delle monete di Ignazio Tadisi. Essa viene fatta risalire all'epoca romana quando per la prima volta si stabilì che «due Oncie valessero per una Libra», che da quel momento in poi divenne immaginaria. Tale pratica fu seguita da molti popoli che ancora nel Settecento utilizzavano il nome di libra, anche se le libre esistenti in quel periodo erano tutte diverse. Nonostante esistessero libre diverse e valute diverse per ogni luogo, esse assumevano tutte la medesima funzione e cioè quella di «servire al calcolo, come anticamente serviva la libra di peso».

Allo stesso modo di Costantini122 [Girolamo Costantini, Delle monete ..., cit., p. 8.] - ed in questo caso la somiglianza non è circoscritta solo al significato visto che la frase in questione è pressoché identica - egli identifica monete come «le libre di Banco, Scudi oro stampe, Scudi oro marche, Scudi oro sole, Scudi Imperiali, Ducati di Regno, e tant'altre particolari d'ogni Nazione, che tutte è impossibile numerare, ed altrettante pure si potrebbero di nuovo inventare, quante Cifere possono immaginarsi123 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 36.]», in altrettante monete immaginarie visto che tutte servivano «all'ufficio dell'Aritmetica», sia che ad esse corrispondessero o meno metalli monetati.

La differenza più importante tra monete ideali e monete reali era che con le prime si contrattava, mentre con le seconde si adempivano i contratti; spesso accadeva anche che con lo stesso nome venivano indicate sia le monete ideali che quelle reali, in questo caso era necessaria una ulteriore specificazione affinché tra i contrattanti non sorgessero problemi.

Inoltre, la valuta e le monete immaginarie, che erano «la medesima cosa tolte da per se come misura, e calcolo per proporzionare ogni materialità», potevano essere assimilate ai numeri, al peso ed alla misura e, se venivano considerate unitariamente alle monete esse erano «un puro accidente delle medesime».

La valuta, sebbene venisse fissata dal principe, così come venivano stabilite le tariffe, quasi sempre non coincideva né con «quel prezzo che la voltontà degli uomini dona ai metalli», né con «quel prezzo reale, e materiale, che dassi o ricevesi per contraccambio d'ogni contratto124 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 44.]», per questo, non bisognava credere che una moneta fosse più preziosa quando veniva più valutata; allo stesso modo, quando, insieme alla valuta, crescevano i prezzi delle merci non si doveva credere che si dava più metallo in cambio.

Senza prendere in considerazione il valore della moneta d'argento egli esaminava il valore dello zecchino, espresso in valuta, nel corso di due secoli (lire 7 e soldi 14 nel 1755, lire 16 nel 1664, lire 22 nel 1727) e, confrontando la variazione di detta valuta con la variazione del rapporto tra oro ed argento (11½ nel 1555, 14¾ nel 1664, 15 nel 1727), scopriva che la valuta di una moneta rispetto all'altra non collimava con la proporzione esistente tra il valore dell'oro e quello dell'argento, e quindi non dava «il prezzo, e la stima a medesimi; dunque non può esser il prezzo de' contratti125 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 46.]».

La valuta avrebbe quindi dovuto fornire non solo una stima numerica della quantità di metallo in ogni moneta, ma, dato che le monete erano coniate con metalli diversi, avrebbe dovuto essere «proporzionata ed aggiustata alla proporzione dovuta tra l'Oro, e l'Argento», per fare in modo che non si verificassero «le incette, fusioni, e trasporti, aggi, ed alzamenti».

Le variazioni cui erano state sottoposte le monete erano state così forti da apportare squilibri tali che il sistema monetario non era più in grado di funzionare regolarmente. Le variazioni delle monete potevano avvenire nel loro intrinseco e nel loro estrinseco; anche se il prezzo intrinseco era la parte più mutabile delle monete dato che dipendeva «dalla volubilità del nostro affetto, e dalla soggezione d'ogni passione», il più delle volte avvenivano mutazioni nel prezzo estrinseco, il prezzo attraverso il quale venivano espresi i prezzi.

Egli dimostrava inoltre che la lira (libra), la quale quasi dappertutto serviva come «regola immutabile al computo delle monete», non era né ferma né stabile; lo zecchino veneto che a Venezia valeva 22 lire, a Genova ne valeva 12 ed a Milano 13 perché in ciascuna di queste città esisteva una libra diversa, così come accadeva per tutte le altre misure. Ad esempio, un panno della medesima lunghezza che a Venezia misurava 100 braccia, ad Ancona 106, a Roma 104 e a Firenze 115, anche se il panno era lo stesso in ogni luogo. Ciò era dovuto soprattutto alla diversità delle misure che nel tempo «divariarono» da quelle stabilite.

Gli alzamenti che «si succedettero più frequentemente in un luogo, che nell'altro» provocarono la disuguaglianza tra le rispettive valute, che all'inizio erano tutte identiche alla libra romana. Nemmeno alcune monete di conto, particolarmente apprezzate dai mercanti, come la «libra di Banco» di Venezia, potevano essere ritenute invariabili come avevano ipotizzato alcuni scrittori (Neri, Costantini, Broggia).

Per convalidare questa asserzione egli faceva notare che nel 1600 al momento della istituzione del Banco le scritture furono eseguite utilizzando «la Moneta ideale antica di Libre Grossi» che equivaleva a dieci ducati - anch'essi ideali - e a 62 lire «di piccioli». Subito dopo, per i vantaggi che derivavano dal suo utilizzo, si assistette ad una sopravvalutazione della «libra di Banco» rispetto a tutte le altre monete; tale sopravvalutazione chiamata aggio, talmente connaturata con la «libra di Banco», dimostrava come anch'essa fosse soggetta a variazione.

La variazione del venti per cento (la libra di Banco era aumentata da 10 a 12 ducati) pur essendo attribuibile a fenomeni come la introduzione di monete forestiere di bassa lega o corrose, testimoniava che anche la moneta maggiormente utilizzata nelle transazioni commerciali, era soggetta a variazione. Questo fenomeno non riguardava solo la Piazza di Venezia visto che fenomeni simili erano riscontrabili anche a Genova ed in tutte le altre piazze commerciali.

La invariabilità di questo tipo di monete immaginarie era limitata alla funzione di conteggio uniforme delle monete di un luogo rispetto a quelle di un altro per evitare che nelle transazioni commerciali venissero considerati gli aggi e gli alzamenti delle monete correnti; proprio quest'ultimo argomento doveva dimostrare ai sovrani che le mutazioni e gli alzamenti andavano esclusivamente a danno e detrimento dei propri sudditi e a vantaggio di pochi «più profittevoli dell'Alchimia».

11. Le soluzioni ai gravi problemi monetari

Le alterazioni monetarie, erano riconducibili in primo luogo alla attività - definita di «secreta rapina» - del principe, il quale o sottraeva alle monete una determinata quantità di metallo, oppure con un decreto alzava la valutazione precedente delle moneta e all'ignoranza del popolo, il quale accettava «volentieri» le alterazioni provocate dagli speculatori credendo con esse aumentare il valore dell'oro in suo possesso.

Gli speculatori da parte loro, introducendo monete forestiere di «più alta valuta, o di più bassa lega», alteravano la proporzione esistente tra le monete, le più ricercate delle quali venivano infatti scambiate come merci e ad un prezzo più alto che finiva per diventare un prezzo imposto dall'uso e non dalla legge.

Mentre le mutazioni provocate dal popolo erano condannate da tutti, la questione se condannare o meno le mutazioni provocate dalla volontà del principe era abbastanza controversa. Alcuni, riservando interamente la materia delle monete alla competenza del sovrano, pensavano che egli potesse mutarle assegnando «quel valore più alto, e più basso, che a lui piace». Tuttavia molti, anche tra quelli che sostenevano l'ammissibilità del diritto regio di mutare le monete, finivano per riconoscere che lo stesso sovrano non potesse mutare le monete «se non per causa giusta necessaria al Pubblico, ed universal bene».

Le mutazioni monetarie che Cappello condanna («odiose, ed ingiuste»), non andavano tuttavia confuse con quelle «che fanno i Prìncipi prudenti, restituendo alla primiera valutazione le monete, che furono abusivamente alzate dal popolo, perché togliere l'abuso, e rimettere al legale non è mutazione, ma regolazione, e restituzione126 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., pp. 60-61.]»; in questo caso il principe esercitava legalmente il diritto che aveva sulle monete, quello cioè di rendere certo il loro vero valore e di restituirle alla loro integrità.

La questione della valuta da assegnare alle monete veniva a questo punto spostata su un piano concreto; egli si domandava, ad esempio, quale valore dovesse assumere lo zecchino veneto che in quel tempo valeva 22 lire, se andasse cioè ragguagliato al valore dell'ultima regolazione del 1687, oppure al valore delle regolazioni precedenti. Le difficoltà che sarebbero derivate da una diminuzione del valore della moneta avrebbero potuto indurre qualcuno a pensare di lasciarne immutato il valore, ma una più attenta considerazione degli effetti della regolazione avrebbe convinto chiunque della necessità di questo provvedimento che avrebbe dovuto riportare il valore delle monete proprio in misura corrispondente all'ultima regolazione del 1687.

Molto chiara è la spiegazione degli effetti della regolazione (rivalutazione) delle monete veneziane, anche se ad essa non vengono dedicate molte pagine, come aveva fatto Costantini. La regolazione, afferma Cappello, non avrebbe cagionato nessun problema ai mercanti che effettuavano la maggior parte dei pagamenti per «via di Cambj», cioè con strumenti che non tenevano conto della parte ideale delle monete; per questo sarebbe stato indifferente utilizzare una misura (lire 17 per ogni zecchino) piuttosto che dell'altra (lire 22 per ogni zecchino).

Lo stesso non sarebbe accaduto per quei contratti stipulati sulla base della valutazione estrinseca delle monete; in questo caso la regolazione avrebbe avvantaggiato i titolari di crediti derivanti da contratti vecchi stipulati in «Moneta corrente, e mentre il Zecchino valeva Lire 22 godrebbono il privilegio di diventare come fossero fatti col Zecchino a Lire 17».

I «Censi, le obbligazioni, le prestanze, gl'affitti concordati a Ducati correnti, ovvero a libre di piccioli diventarebbono più gravosi a' debitori, a' quali per supplire dovrebbono sborsare più Oro, e più Argento, perché il Ducato immaginario, e la Moneta di valutazione sarebbero divenute più significative, o pure parlando col senso comune, l'Oro, e l'Argento avrebbero prezzo minore, o co' Giuristi sarebbe la bontà estrinseca deteriorata127 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 63.]». Inoltre il pagamento dei salari sarebbe risultato più gravoso ai datori di lavoro giacché la regolazione avrebbe avuto l'effetto di far aumentare il valore delle monete minute, con le quali venivano normalmente corrisposti i salari.

Di fronte a tutte queste persone danneggiate, i creditori di censi, di obbligazioni, di prestanze, di affitti si sarebbero avvantaggiati con la riscossione di una quantità maggiore di metallo prezioso in confronto a quello ottenuto prima di questo provvedimento; la «bassa gente, che viveva della giornaliere fatica» avrebbe goduto di un aumento di salario derivante dalla rivalutazione della moneta minuta rispetto alle monete nobili; infine, la regolazione avrebbe rimosso il danno sopportato dai creditori a seguito dell'alzamento delle monete eliminando di conseguenza il risparmio dei debitori perché i contratti sarebbero stati pagati «con le realità medesime, co' quali furono stipulati».

La regolazione avrebbe poi provocato la diminuzione del prezzo delle merci straniere, aumentato a causa dei «sopraggi, ed alzamento dei Cambj»; questa diminuzione se non fosse avvenuta automaticamente, afferma l'autore, sarebbe stata provocata dalla concorrenza tra i negozianti. Il prezzo delle merci, invece, che non entravano a far parte del commercio estero, ed in modo particolare quelle «minute», sarebbe aumentato a seguito della maggior valutazione della moneta piccola e l'effetto maggiormente apprezzabile di questo aumento sarebbe stato il vantaggio di «quelli, che si sostentano colle proprie rendite» i quali danno lavoro a tutti gli operai e gli artigiani.

Duplici gli effetti della regolazione sull'erario pubblico; da un lato il vantaggio derivante da una maggiore riscossione di imposte, rese dalla regolazione «più proporzionate alle private rendite»; dall'altro la fine del guadagno derivante dai pagamenti delle milizie, degli stipendiati, e dei salari dei ministri effettuati in moneta corrente (moneta rivalutata).

La riduzione delle «sproporzionatissime» monete della Repubblica di Venezia sarebbe dovuta avvenire «in un sol punto» in base ai principi fin qui esposti. La zecca avrebbe dovuto coniare solo due monete, una d'oro e l'altra d'argento, e stabilire la loro valuta con «proporzione Aritmetica» rispetto al valore dei metalli preziosi. Ai magistrati sarebbe stato affidato il compito di preservare la valuta dalle alterazioni che derivavano dagli arbitri del popolo e dall'attività dei mercanti, mentre il Senato avrebbe dovuto adeguare la stessa valuta a fronte di una variazione di valore dei metalli preziosi sui mercati.

Partendo dal presupposto che «tutti i negozj di Monete dipendono dal confronto del fino in esse con le valutazioni, con che si conoscono le sproporzioni, ed insieme, cagionano i guadagni», Cappello descrive i meccanismi che regolavano il mercato monetario dell'epoca e le operazioni che i mercanti effettuavano tra le maggiori piazze commerciali europee a fini speculativi; operazioni alle quali attribuiva le responsabilità maggiori dei disordini monetari esistenti.

Grande spazio viene dedicato pure alla ricerca della proporzione esistente tra il valore dei metalli preziosi e ad appurare l'esistenza o meno di una regola certa per fissare questa proporzione. Dopo aver rilevato che determinare la quantità disponibile in Europa per gli usi monetari non era un compito agevole a causa della difficoltà nella determinazione della quantità consumata e quella riesportata in Asia degli stessi metalli, Cappello fornisce i dati della valuta, del peso e della bontà delle monete delle maggiori piazze e li confronta con i rapporti esistenti tra il valore dei metalli preziosi in ciascuna piazza.

Dall'esame dei dati risultava che per ciascuna piazza non era possibile riscontrare una proporzione unica tra l'oro e l'argento, ma tante quante erano le monete che in essa circolavano. Ciò andava ricondotto principalmente alla diversità di «lega, quantità e Valuta assegnata» alle monete; quest'ultima veniva stabilita «a capriccio» senza seguire nessun calcolo. Le sproporzioni, ripeteva il patrizio veneziano, eccitavano le attività speculative dei mercanti, provocavano il disordine delle attività commerciali e alla fine gli stessi cittadini non conoscevano più quale fosse «la misura di tutte le loro sostanze mobili e stabili128 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 96.]».

Per stabilire le proporzioni tra il valore dei metalli preziosi in ciascuna piazza veniva presa come riferimento «la madre delle proporzioni» e cioè i rapporti tra le monete d'oro e d'argento che venivano coniate su quella piazza. Attraverso il confronto su ogni piazza della proporzione principale con tutte le altre proporzioni si comprendeva subito come i divari esistenti tra le proporzioni andassero immediatamente eliminati.

La determinazione del prezzo di una moneta non poteva prescindere dalla quantità ed alla bontà del metallo contenuto, anche se capitava che alcune monete ricevevano una valutazione maggiore rispetto alle altre dello stesso metallo perché godevano di un privilegio che derivava da motivi non riconducibili al metallo che contenevano. La proporzione doveva essere unica per ciascuna piazza, «tutte le altre proporzioni non aggiustate alle matrici, o siano regolative dell'altre, sono ree».

Determinante veniva ritenuta la conoscenza del rapporto esistente tra i prezzi dei metalli in quanto merce, prezzo diverso per ciascuna piazza perché determinato dalla diversa «lunghezza di viaggi, rischi, e negozj, cui prima d'arrivarvi soggiacciono essi metalli129 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 118.]»; questo rapporto era fondamentale per determinare la relazione esistente tra le monete, che andava stabilita tenendo bene a mente il seguente assioma: «Non plus valeat in Moneta, quam in Massa». Lo scarto che quasi dappertutto esisteva tra i due valori era dovuto alle spese di conio, delle quali, secondo lo scrittore veneziano, poteva al limite farsi carico anche il principe perché le monete «prestano il comodo che non presterebbe la massa informe e rozza130 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 120.]».

Le proporzioni tra le monete potevano, una volta stabilite, essere sconvolte dalla variazione del prezzo di uno dei metalli preziosi, prezzo che il principe, così come ogni privato, non era assolutamente in grado di controllare. Molto importante era la misura di questo cambiamento. La valuta della moneta poteva rimanere invariata, nel caso in cui la variazione del prezzo dei metalli risultava contenuta entro le spese del conio, in questo caso le perdite subite dallo stampo della moneta di un metallo sarebbero state compensate dai maggiori guadagni derivanti dalla stampa di monete dell'altro metallo; ma, a fronte di una variazione maggiore rispetto alle spese di conio, sarebbe risultato indispensabile modificare la valuta delle monete, pena una grave perdita per la zecca e gravi pregiudizi per il commercio.

Una volta stabilita la giusta proporzione (di equilibrio) tra le monete sarebbe stato necessario impedire ogni pratica pregiudizievole per questa proporzione. I provvedimenti presi dal governo veneziano immediatamente successivi ad ogni regolazione, come ad esempio la proibizione dell'esercizio dei cambiavalute e di ogni sorta di traffico di monete e di metalli, non avevano raggiunto gli effetti desiderati.

Cappello ribadiva la necessità di adottare due sole monete, una d'oro l'altra d'argento, come nei grandi Stati nazionali, e l'obbligo per i cittadini di utilizzare queste monete nei pubblici pagamenti. La misura, però, che più di tutte avrebbe preservato la proporzione delle monete, sarebbe stata quella di fare in modo che «l'Oro, e l'Argento sia la comune materia delle commutazioni, delle Vendite e Compre, e di tutti i Contratti, non la Valuta, nè l'Ideale Moneta, che sono semplici misure, e servono solamente al raziocinio ed al Calcolo131 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 134.]».

La moneta poteva essere preservata dalle alterazioni e mantenuta uniforme come una misura od una bilancia, solo adottando una concezione rigidamente "metallistica", facendo cioè in modo che nelle contrattazioni venisse stabilito univocamente il quantum di metallo dovuto. Il sistema immaginato avrebbe rappresentato una garanzia per il creditore dato che sarebbe stato impossibile trovare chi «potesse pretendere di restituire co' la Misura d'oggi ciò, che hà ricevuto co' la misura di jeri?132 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 135.]».

Erronea era l'opinione di chi sosteneva che, se non era stato espressamente previsto, il debitore avrebbe potuto pagare il debito «in Valuta, e non in specie». Le valute, affermava Cappello, altro non erano che «segni ed indicazioni» che in alcun modo non potevano essere date in cambio delle merci. I pagamenti dei contratti stipualti in monete immaginarie potevano essere eseguiti indifferentemente «in Monete d'una, che dell'altra impronta purché siano usuali» e non in «Monete Minute»; la loro natura era infatti tale che potevano essere assimilate alla valuta («essendo esse conformi alla Valuta»). Il pagamento doveva essere effettuato in modo tale che «per comporre essa valuta, ovvero esso numero di monete picciole, ed immaginarie Monete abbino ad entrarvi altrettante monete d'oro, ovver d'argento, quante n'entravano al tempo del Contratto133 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 139.]».

La soluzione dei problemi che sorgevano a seguito dell'alterazione del valore delle monete per le parti di una obbligazione pecuniaria era conforme alla tradizione metallistica. Egli, così come avevano fatto Innocenzo III e Bartolo da Sassoferrato (solo per citare gli interpreti più autorevoli di questa dottrina), affermava che la moneta data in pagamento doveva avere la stessa quantità e qualità di metallo pregiato rispetto a quello contenuto nell'equivalente in moneta legale stabilita al momento della stipulazione del contratto.

I pagamenti che venivano effettuati in base a quanto stabiliva la consuetudine, tenendo cioè conto esclusivamente della «Valuta», erano dovuti o all'ignoranza del popolo, o all'astuzia di uomini accorti. Questi ultimi quando le «Valute sono in grande altezza, e può facilmente aspettarsi, che il Principe le restituisca al segno legale, si fingono ignoranti, e vogliono espressa nei contratti la semplice valutazione, per guadagnare nella vicina riduzione delle Monete altrettanto Metallo, quant'è il soprapiù, che per l'altezza della Valuta essi non danno134 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., p. 141.]».

Contrariamente a quanto accadeva «quando le Monete sono nella loro Legale valutazione, vogliono espresso nel contratto, che il debitore sia obbligato di pagare nell'identica somma, e real specie, e così nel susseguente alzamento di Valute preservano a loro la data quantità di Metallo, che non avrebbono preservato, se avessero nominato nel Contratto la semplice Valuta135 [Piergiovanni Cappello, Nuovo trattato ..., cit., pp. 141-142.]».

Anch'egli, infine, individua nell'obbligo di effettuare i pagamenti in moneta di Banco una misura in grado di sanare le anomalie che derivavano dalle contrattazioni in valuta, auspicando che provvedimenti di questo tipo venissero estesi ad ogni contratto per eliminare una volta per tutte le conseguenze negative che derivavano dagli alzamenti delle monete.

Cappello, così come aveva fatto il ragionato Costantini, aveva trovato nella storia monetaria di Venezia e nei provvedimenti adottati in passato dalle sue istituzioni, «il modello di una regolamentazione monetaria precisa e sperimentata» per fare fronte alla situazione di emergenza che il disordine monetario aveva creato. La lunghissima esperienza accumulata nella amministrazione finanziaria della Repubblica ebbe un peso importante per la formazione delle sue teorie monetarie alla quale concorse anche una erudizione non indifferente.

In conclusione ci pare opportuno ricordare l'ingiusto giudizio di Alberto Errera136 [A. Errera, Storia dell'economia politica nei secoli XVII e XVIII negli stati della repubblica veneta, Appendice al Volume II della Serie V degli atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia, Antonelli, 1877, pp. 233-234.], l'unico storico che ha dedicato alcune pagine all'esame dell'opera del patrizio veneziano. Dopo aver definito il suo stile «pesante, goffo, dogmatico, pretensioso», ha scritto che le idee di Cappello furono determinate da ragioni politiche, da preoccupazioni regionali e dalla sua devozione alla Repubblica; tali idee, prosegue lo storico veneto, rappresentavano solo un «presentimento confuso ed indeterminato» delle nuove teorie soprattutto a causa della sua reverenza verso le leggi patrie e di una soverchia erudizione di leggi antichissime che gli facevano ingombro alla mente e gli scemavano la serenità.

 
 
 
 
 

 
 

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